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Economia
Parliamo di ciò che veramente conta in Italia: le fabbriche

di Filippo Astone*

Mancano 9 giorni alle elezioni europee e, come al solito, si parla di tutto, ma non degli argomenti veramente significativi. Il maggior assente dal dibattito politico è il tema più importante per la vita degli elettori: l’industria. Dalle fabbriche – sulle quali, come vedremo l’Europa ha un peso decisivo - dipende il 70% del pil italiano, più di metà dell’occupazione, la vita di 438mila imprese manifatturiere, e buona parte della nostra cultura. Senza una ripresa delle fabbriche (in Italia la capacità produttiva inutilizzata è del 25%, una tragedia), non è possibile alcuna crescita economica, e non ci sono speranze per il futuro del Paese. Senza le fabbriche, o con meno fabbriche, c’è solo miseria, decadenza, situazioni di tipo greco o argentino. Non solo perché l’Italia, poverissima di materie prime (in stragrande maggioranza comprate all’estero) è un Paese trasformatore per eccellenza, e soltanto con l’esportazione di manufatti la sua bilancia dei pagamenti può stare in piedi. Ma soprattutto perché solo il manifatturiero, specialmente se di qualità, può essere il motore principale di una crescita economica sostenibile. Per merito dell’innvazione tecnologica che esso crea e alimenta, e che dalle fabbriche si irradia al resto del sistema Paese. L’industria è strettamente legata alla ricerca e sviluppo, e a quei gangli di creatività tecnologica capaci di pilotare la marcia dell’innovazione, la stessa innovazione che ci rende competitivi sui mercati globali. Insomma, l’industria ci lega strettamente alle dinamiche dell’economia internazionale, mentre i servizi ci ancorano a un asfittico, declinante e sempre più povero mercato interno.

Peraltro, l’economia italiana dei servizi è misera. Concentrarci interamente sui servizi nel migliore dei casi ci consegnerebbe un futuro fatto di centri commerciali e di una gamma di servizi alla persona di modesta qualità.

Ma da chi dipende, nel bene o nel male, il futuro dell’industria italiana? In larga parte, dall’Europa. Per questo bisognerebbe parlarne, e anche molto. Verificare la competenza dei candidati sul tema (su molti, sono leciti seri dubbi) e chiedere loro come pensano di affrontarlo. Magari, ne verrebbero furori delle belle. Personalmente, mi candido a fare una bella intervista-esame su questo a Matteo Salvini della Lega Nord (che ci propina, sapendo di mentire, la bugia di poter risolvere il tutto con un’impossibile uscita dall’euro), a Giovanni Toti di Forza Italia (“ma lei, dottor Toti, come vede l’Industrial Compact? Come lo articolerebbe?”, chissà che cosa ne viene fuori), ad Alessia Mosca del Pd (la donna che si è distinta per l’obbligo delle quote rosa nei consigli di amministrazione delle imprese, una delle riforme più inutili e demagogiche della storia d’Italia, e ora la mandiamo in Europa, ma di fabbriche e di industria, che cosa ne sa?). Eccetera.

Ma torniamo al merito della questione.

Negli anni scorsi, l’austerità che la Germania ha imposto al resto del Vecchio Continente attraverso l’Unione Europea, ha depresso i consumi in Italia, riducendo la domanda interna. In questo modo, ha anche segato le gambe al manifatturiero italiano che comunque, nonostante le esportazioni, ha la testa in Italia, e quindi è strettamente legato ai consumi interni.

Adesso che l’austerità è passata di moda (perché è fallita miseramente, producendo disoccupazione e risultati di segno opposto a quelli che si proponeva), probabilmente anche in Europa si aprirà una stagione di politiche diverse. Anche politiche fiscali espansive, magari, che potrebbero avere un forte impatto positivo sul manifatturiero italiano. Inoltre, dopo il fallimentare Fiscal Compact, è all’ordine del giorno europeo un Industrial Compact, per portare al 20% la quota manifatturiera del pil dell’Unione. Gli eurodeputati italiani, se saranno persone serie e competenti, potranno avere un ruolo incisivo in questa partita.

L’Unione Europea è più complessa di quello che si tende a credere.  Non chiede solo risparmi o macelleria sociale. Ma dà anche denaro e occasioni di sviluppo. L’Europa chiede, ma mette anche a disposizione risorse. Con una mano prende e con l’altra dà. Il fatto è che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Unione europea con una quota pari al 13%, ma poi, al momento di beneficiarne, porta a casa poco. A oggi, mancano ancora 22 miliardi di euro di fondi europei da spendere dello scorso settennato, di cui 16 al Sud e 8 al Nord. Se non si spendono entro la fine del 2015, questi i soldi in Italia non ci resteranno più. Un altro esempio dell’Europa che dà anche denaro e sviluppo è il programma Horizon 2020 che prevede ben 80 miliardi da investire per la ricerca e sviluppo, ammesso e non concesso che gli italiani riescano a spendere la loro parte.

Ultimo ma non certo meno importante, l’accordo per il libero commercio che l’Europa sta trattando con gli Stati Uniti (e che il Parlamento europeo dovrà approvare o modificare) e che avrà effetti enormi per tutti i 500 milioni di cittadini del Vecchio Continente, a cominciare proprio dal manifatturiero e dall’industria. Si chiama Ttip (acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership). In italiano lo traduciamo come partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti. Comunque lo si chiami, è un accordo che ha l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti. Le negoziazioni sono iniziate nel luglio del 2013 e dovrebbero terminare, se tutto va bene, a fine 2014. Stime attendibili hanno quantificato che questo accordo potrebbe far crescere l’economia europea di 120 miliardi, quella americana di 90 e l’economia del resto del mondo di almeno 100 miliardi. Il libero scambio, infatti, produce un incremento dei commerci che rappresenta un formidabile effetto leva per l’industria.

Su questi argomenti dovranno lavorare, almeno in teoria, gli eurodeputati che fra 9 giorni gli italiani si apprestano a eleggere. Siamo ancora in tempo a parlarne.

assone
 

*Filippo Astone è nato a Torino nel 1971, ed è laureato in Scienze Politiche con una tesi sul governo mondiale.A 21 anni è entrato nel mondo dei giornali, dove ha svolto una lunga gavetta, girando 25 redazioni diverse, tra cui Il Giornale, L'Espresso,
Milano Finanza, Epoca e tanti altri. 
Nel 1997 ha iniziato a far parte della redazione del Mondo, in newsmagazine di economia del Corriere della Sera, dove è stato
a lungo una delle firme più importanti, occupandosi prevalentemente di Confindustria, di interviste a protagonisti dell'economia, della 
vicende delle grandi aziende. Oggi fa parte della redazione di Rcs Multimedia News, la fucina di nuovi progetti multimediali del gruppo.
Nel 2009 ha iniziato una fortunata carriera di saggista, esordendo per Longanesi con Gli Affari di famiglia. Fatti e misfatti della nuova generazione
di padroni, un'impietoso ritratto del capitalismo italiano che ha provocato dozzine di articoli, recensioni, dibattiti televisivi. Nel 2010 ha fatto
il bis, sempre con Longanesi, pubblicando Il partito dei padroni. Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia. Nel 2011
sono usciti Italia Low Cost. Viaggio in un Paese che tenta di resistere alla crisi (Aliberti), e Senza Padrini. Resistere alle mafie fa guadagnare (Tea).
Nel 2013 ha pubblicato, ancora per Longanesi, La Disfatta del Nord. Corruzione, clientelismo, malagestione. 
Fra pochi giorni sarà in libreria il suo nuovo saggio, La Riscossa, dedicato alla riscoperta del mondo delle fabbriche e dell'economia reale (Magenes editore). 
Come opinionista, o per parlare dei suoi libri, è spesso ospite di trasmissioni radiofoniche e televisive.

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