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Economia
Jabil, ancora Usa: l’ultima grana Mise. Così Di Maio riduce le crisi aziendali

Si allunga la lista di tavoli di crisi al ministero dello Sviluppo economico (Mise). Alla corposa lista di vertenze (ormai circa 160), si è aggiunta infatti anche quella di Jabil Italia, società che fa capo alla multinazionale statunitense delle telecomunicazioni Jabil, quotata a Wall Streeet (4,7 miliardi di dollari la sua capitalizzazione, con una performance positiva nell’ultimo anno del 14%) e attiva nel settore della produzione di componenti elettronici.

Jabil, che nel terzo trimestre fiscale dell’esercizio 2018-2019 ha registrato un giro d’affari netto di 6,1 miliardi di dolari, con segnali positivi dal comparto Electronics Manufacturing Services

(in crescita del 26% su base annua) ma molto meno da quello dei Diversified Manufacturing Services (-6% su base annua), ha avviato la procedura di licenziamento collettivo per 350 addetti su 700 complessivamnte impiegati nello stabilimento di Marcianise, in provincia di Caserta, rilevato nel 2015 dalla Ericsson (con una prima sforbiciata di addetti).

Questo nonostante l’azienda non sia in crisi, tanto che il Ceo, Mark Mondello, commentando i risultati del trimestre e annunciando le stime per quello in corso ha parlato di risultati “robusti” prevedendo per il quarto trimestre fiscale “ricavi, utili per azione delle attività “core” e flussi di cassa solidi grazie ad una robusta domanda per 5G, wireless, cloud ma anche per i servizi industriali, al settore della salute e per il packaging”.

Sarà un caso, ma di recente sono sempre di più i gruppi americani a mostrarsi sempre più disaffezionati all’Italia, anche se Jabil ribadisce che la misura è legata unicamente al “contesto economico sfidante” che ha ridotto i volumi e portato ad un sotto-utilizzo delle risorse. A fine maggio Whirpool aveva ad esempio annunciato la volontà di cedere a terzi l’impianto da 430 dipendenti di Napoli, provocando le ira del vicepremier e ministro per lo sviluppo Luigi Di Maio.

Sul rilancio dell’impianto ex Alcoa di Portovesme passato agli svizzeri di Sider Alloys ma di fatto fermo dall’ottobre 2012, che dava lavoro a 600 operai (più altri 400 in tutto l’indotto) ed arrivato a produrre 155 mila tonnellati di alluminio all’anno (per un giro d’affari da 500 milioni di euro). Dopo un primo accordo siglato dall’allora ministro Calenda che impegnava gli svizzeri a far ripartire le attività riassorbendo circa 370 dipendenti per tornare a produrre attorno alle 150 mila tonnellate annue di alluminio, il tempo è passato e ancora si deve scrivere la parola fine, anche se nell’ultimo incontro di ieri al Mise si sarebbero fatti passi in avanti sul tema, centrale, del costo dell’energia.

Troppo poco per dire che la vertenza sia chiusa, anche se Sider Alloys sottolinea come siano già stati sottoscritti i primi contratti di fornitura per il riavvio degli impianti e riassorbita una novantina di lavoratori. Ma perché gli americani e in generale sempre più aziende faticano a tenere aperti gli impianti produttivi in Italia? Pesano una serie di fattori diversi: anzitutto la concentrazione di molti casi di crisi in settori maturi e ad alta intensità di capitali, che risentono da anni di situazioni di sovraproduzione.

Per questi casi anche pochi punti percentuali di maggiore costo del lavoro o un cuneo fiscale più elevato che in altri stati sono motivi sufficienti a decretare lo spostamento delle produzioni in aree maggiormente attrattive. In altri casi, come per l’elettronica, pesano le tensioni internazionali legate al braccio di ferro in atto tra gli Stati Uniti di Trump e la Cina di Xi Jinping, entrambi intenzionati a mantenere o guadagnare una leadership mondiale in comparti high-tech strategici come le infrastrutture per comunicazioni.

Ultimo ma non meno importante fattore, in Italia la produttività delle aziende perde colpi rispetto ai concorrenti diretti esteri, mentre la domanda interna continua a languire, come hanno ribadito i dati diffusi ieri dall’Istat riguardo il primo trimestre 2019. Un trimestre che nonostante un incremento del reddito disponibile delle famiglie consumatrici dello 0,9% rispetto al trimestre precedente, ha visto i consumi crescere in termini nominali di appena lo 0,2%.

Se a questo aggiungete che la pressione fiscale nello stesso periodo è aumentata dello 0,3% su base annua raggiungendo il 38%, il motivo per cui nonostante il Pil abbia smesso di scendere le aziende continuano a chiudere o a trasferire in parte o in toto la loro produzione all’estero appare sempre meno misterioso. L’Italia, semplicemente, non è più attrattiva per la grande industria mondiale.

 

 

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