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Economia
Mps sembra una seconda Alitalia: in dieci anni bruciati 23 miliardi di euro
Lapresse

La più antica banca del mondo, Mps, non cesserà di esistere, almeno per ora. Unicredit e il Mef dopo mesi di due diligence hanno dato il ko (definitivo?) all’operazione. L’acquisto di Mps da parte di Unicredit sarebbe stato solo l’ultimo di una serie di sconvolgimenti nel mondo del credito nostrano; negli ultimi anni sono sparite banche di peso con una forte vocazione territoriale, si pensi a Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Marche, Banca Etruria, UBI, Creval.

Le storie di queste banche sono molto diverse tra di loro, alcune sono state liquidate lasciando alle spalle truffe, montagne di crediti deteriorati e impatti sui tessuti economici locali, altre sono state coinvolte in operazioni virtuose di accorpamento. Restano irrisolti i nodi di Carige e Popolare di Bari fra le banche territoriali, mentre fra le nazionali ora l’appeal è tutto su Banco Bpm che potrebbe essere preda della stessa Unicredit.

A tendere il mercato bancario sarà contraddistinto da pochi campioni nazionali, banche specializzate, banche di prossimità (prevalentemente BCC) che fanno già capo ad un holding. Così è andata, da un lato per insipienza di amministratori e istituzioni, dall’altro per la rapida trasformazione del mercato che ha reso obsoleti i modelli di business delle banche incentrati su filiali, fedeltà della clientela ed elevati tassi di interesse. Modelli non più coerenti con l’attuale contesto scaturito da Psd2 (che apre alla condivisione fra le banche delle informazioni di conto corrente), digitalizzazione dei processi (che rende ridondante per molte attività il ruolo delle filiali), tassi zero (che impongono una rivisitazione dei modelli di ricavo).

Tornando al caso Mps, la mancata operazione segnala soltanto lo stato in cui versa Mps e la generosità del Mef a riconoscere incentivi e a farsi carico dei crediti deteriorati non è bastata a convincere Orcel che avrebbe voluto altri due miliardi di dote oltre ai cinque previsti. Il motivo? Unicredit vuole preservare i propri indici patrimoniali, fra gli indicatori più importanti dopo lo tsunami del 2008. Non dimentichiamo che Mps ha chiuso in rosso otto degli ultimi dieci esercizi, in particolare con il rosso di 1,6 miliardi del 2020, le perdite accumulate da Mps nell’ultimo decennio ammontano a circa 23 miliardi di euro; la parabola è stata segnata dall’acquisizione sopravvalutata di Antonveneta allo scandalo dei derivati fino all’esplosione dei crediti deteriorati.

Drammatico anche il dato sui ricavi, nell’ultimo anno di gestione privata, il 2016, Mps chiuse con ricavi per 3,8 miliardi, per scendere a 2,5 miliardi nel 2020. Il subentro dello Stato nel 64% del capitale della banca è costato circa 7 miliardi (incluso il rimborso delle obbligazioni subordinate), il controvalore a oggi della medesima quota è di circa 800 milioni.

Basterebbero questi numeri per far vergognare leaders politici da strapazzo che ancora oggi parlano a vanvera di soluzioni per Mps (tipo nazionalizzazioni infinite), mentre l’unica soluzione possibile deve passare dal mercato, politici che ignorano che da anni è la vigilanza europea a dettare le regole e i tempi di un mondo del credito sempre più interconnesso e interdipendente (si veda il casi dei mutui sub prime). Evitiamo di far diventare Mps la nuova Alitalia perché in tal caso costerebbe alla collettività ben di più dei due miliardi che hanno diviso il Mef dalle richieste di Unicredit.

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