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Economia
Petrolio, bestia nera di Putin. Ma per l’Europa è una manna dal cielo

di Luca Spoldi

Sarà anche vero, come scrivono gli esperti del Credit Suisse, che “ai livelli attuali di mercato le opportunità superano i rischi”, certo è che vedere il prezzo del petrolio avvicinarsi agli 80 dollari al barile ha fatto scattare più di un campanello d’allarme e a pagare il prezzo più salato sono stati in queste ultime due settimane i listini azionari europei. Eppure gli investitori potrebbero essersi dimostrati “troppo pessimisti sulla crescita”, visto che non hanno tenuto conto finora del fatto che la caduta dei prezzi delle materie prime (e il dollaro più forte) può costituire un insperato stimolo in particolare per l’Europa e il Giappone.

Secondo gli analisti di Citigroup, ad esempio, solo il Brent del Mare del Nord, che in settimana è scivolato a Londra anche  sotto gli 84 dollari al barile, il 20% meno della sua quotazione media negli ultimi tre anni, consentirebbe di risparmiare circa 1,8 miliardi di dollari al giorno. Considerando anche i risparmi derivanti per le imprese dai minori costi di produzione legati al calo delle quotazioni di altre materie prime, secondo Citigroup si arriverebbe ad un totale di oltre 1.100 miliardi di dollari di minori costi nell’arco dei prossimi 12 mesi, equivalenti dunque ad uno “stimolo” alla crescita di pari importo.

Un calo dei prezzi del petrolio genera infatti una deflazione “buona”, ben diversa da quella sperimentata negli ultimi due anni in Europa a seguito della repressione fiscale imposta dalla Germania agli altri paesi dell’Eurozona che si è abbattuta sulle retribuzioni  nette e quindi sul reddito disponibile. Da un lato le aziende, a fronte di minori costi recupererebbero in parte quei margini di profitto erosi dall’aumento dei prezzi delle materie prime stesse negli scorsi anni, dall’altro le famiglie potrebbero incrementare i consumi, tanto più visti i bassi ritorni ottenibili dal risparmio.

Da parte loro gli uomini di Credit Suisse sottolineano come le attuali valutazioni siano “di sostegno” ai mercati azionari, tanto più a fronte di una stagione delle trimestrali che sembra partire bene e con revisioni delle stime sugli utili decisamente inferiori al peggioramento del “sentiment” dei mercati. In più il calo del petrolio sta “contribuendo a redistribuire la crescita globale”, con le economie occidentali che potrebbero tornare ad accelerare e quelle emergenti (medio orientali in particolare) che potrebbero rallentare. In realtà la vera incognita resta proprio l’impatto di prezzi del petrolio così bassi sulle singole economie emergenti.

Se per la Cina, “affamata” di energia, potrebbe essere un insperato sostegno ad una crescita di recente apparsa meno in salute di quanto auspicato (così come il Giappone o l’Europa, per l’alleggerirsi della bolletta energetica), per altre è sicuramente un danno, come nel caso di Venezuela, Iran e Russia, le cui economie sono legate a doppio filo alle esportazioni petrolifere. Secondo alcuni, anzi, oltre che “bacchettare” i produttori nordamericani di shale oil, i sauditi, col beneplacito dell’amministrazione Obama, avrebbero voluto colpire proprio Mosca e Teheran.

Vladimir Putin, in particolare, pagherebbe in questo modo l’eccessiva intraprendenza sia in Est Europa (dove la crisi con l’Ucraina gli ha già procurato una serie di sanzioni economiche che stanno iniziando a frenare la crescita economica dell’ex Unione Sovietica, peraltro con qualche contraccolpo su Germania e Italia, i due maggiori partner comunitari di Mosca) sia in Medio Oriente (col sostegno alla Siria e allo stesso Iran che rischia di tradursi in un implicito “via libera” alle milizie dell’Isis).

Rijhad del resto può estrarre petrolio fino a 83,5-83,6 dollari al barile senza perdere soldi (ed ha nelle casse della sua banca centrale  quasi 740 miliardi di dollari con cui “finanziare” eventuali deficit per alcuni trimestri). Per quanto più costosi e con la tendenza ad esaurirsi più rapidamente (con conseguente necessità di continuo reinvestimento dei profitti per trovare nuovi giacimenti), i pozzi dei produttori nordamericani di shale oil dovrebbero vedere il proprio punto di pareggio tra gli 80 e gli 85 dollari al barile a seconda dei diversi giacimenti.

La situazione è più variegata nelll’ex Unione Sovietica. Se per Kashagan (dove sono impegnati da anni Eni e Saipem) il prezzo di pareggio, inizialmente stimato in 50-55 dollari al barile, dopo i continui incrementi di costi e ritardi nell’entrata in produzione (inizialmente prevista per il 2012, non se ne parlerà prima degli inizi del 2017) dovrebbero essere salito attorno ai 65-70 dollari al barile. In media i giacimenti russi hanno invece un punto di pareggio molto più elevato, tra i 100 e i 105 dollari al barile. Alle attuali quotazioni, insomma, Mosca perde soldi, ma quanto?

Secondo il ministro delle Finanze russe Maxim Oreshkin, ogni calo di 1 dollaro al barile delle quotazioni del petrolio, fa perdere a Mosca un incasso di circa 80 miliardi di rubli all’anno (un paio di miliardi di dollari). Questo significa che negli ultimi tre mesi, in cui il prezzo dell’oro nero è passato da oltre 105 a scarsi 82 dollari al barile, Mosca ha già perso circa 11,5 miliardi di dollari. Volendo trarre una conclusione in termini di portafoglio: se l’oro nero si stabilizzasse su questi livelli e le borse restassero deboli, si potrebbe provare a incrementare la componente azionaria del portafoglio, puntando sull’Europa e sul Giappone in primis, quindi sugli Stati Uniti.

Ancora da evitare i mercati emergenti, finché non sarà chiaro se l’impatto positivo di alcuni supererà quello negativo per altri. E i bond? Con tassi che sembrano destinati comunque a rimanere più a lungo del previsto sugli attuali livelli (o inferiori), c’è spazio per provare a comprare qualche titolo a medio-lungo termine (5 o anche 10 anni), sempre stando attenti a non strapagare i titoli. La liquidità resta infatti abbondante e tenderà a salire ulteriormente nei prossimi mesi per l’avvio dei programmi di riacquisto di bond da parte della Bce e della Bank of Japan. Liquidità che da qualche parte dovrà pure essere parcheggiata non potendo essere integralmente trasformata in nuovi prestiti né investita in titoli azionari o immobili.

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