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Economia
Recovery Fund, Governo in alto mare. Rebus Green da 77 miliardi per Patuanelli

Paolo Gentiloni è stato soprannominato in tempi non sospetti “Er moviola” per i suoi tempi di reazione non esattamente fulminei. Se però perfino lui si è affrettato a lanciare l’allarme su come verranno impiegati i fondi del Recovery Fund significa che il rischio che l’entusiasmo iniziale si tramuti in un nuovo carrozzone è concreto. Dunque i fatti: a luglio l’Italia riceve il via libera per complessivi 209 miliardi tra prestiti ed elargizioni a fondo perduto. La cifra più alta tra tutti i Paesi e il secondo saldo positivo più elevato dopo quello della Grecia.

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Applausi per Conte, peana per il governo, che si impegna solennemente a usare con intelligenza questa enorme montagna di denaro che è paragonabile a oltre il 10% del Pil italiano pre-Covid. Poi si passa dalle parole ai fatti. La scorsa settimana è arrivata la prima bozza del governo: un ircocervo composto da 557 progetti per un valore complessivo di 700 miliardi, tre volte e mezza la generosa dotazione concessa. Il ministro Di Maio ha parlato di una seconda fase di razionalizzazione che dovrà avvenire a breve. Ma in lontananza il governo inizia a intravedere uno striscione che non è quello del traguardo, ma della Nadef – la nota di aggiornamento al Def – in cui si dovrà dare conto di come verranno impiegate le prime risorse che verranno messe a disposizione dall’Europa. Almeno una ventina di miliardi entro la primavera.

L’Europa, per il momento, ha posto solo due vincoli: presentare i piani entro il 15 ottobre in modo da poter dare il tempo alle commissioni valutatrici di stabilirne la bontà; e concentrare il 20% di questi soldi nel digitale e un altro 37% nella green economy. Tradotto, oltre 41 miliardi soltanto per portare avanti la digitalizzazione del nostro Paese. Perché se a Milano si parla di Gigabit al secondo, basta allontanarsi di qualche decina di chilometri per avere connessioni a 2-3 Mbit, che poco si fanno invidiare dai mitologici modem 56k.

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Il ministro Patuanelli, titolare dello Sviluppo Economico, si è affrettato a dire che 27 miliardi saranno destinati all’industria e al rilancio del piano 4.0. Stiamo parlando del doppio di Industria e Impresa 4.0, varati dall’allora governo Renzi nel 2016. Nell’ottimo Piano Calenda, che ha permesso di riammodernare un parco macchine industriali che aveva un’età media quasi doppia rispetto a quello tedesco – e che poteva finalmente diventare il trampolino di lancio verso una fabbrica di nuova concezione -, si annidavano dei dettagli proverbialmente diabolici. Bastava un commercialista con un po’ di pelo sullo stomaco per poter ottenere iper e superammortamento. La definizione a maglie larghe di “tecnologia abilitante”, infatti, consentiva di applicare questo termine a tantissimi tipi diversi di strumenti, non per questo particolarmente innovativi. 

Dunque, se 27 miliardi vengono destinati all’industria 4.0, per la digitalizzazione resterebbero altri 14 miliardi circa. Una cifra con cui si potrebbero fare grandi cose. Ad esempio, accelerare il processo di cablaggio dell’Italia e di sviluppo della tecnologia 5G. E questo non perché così gli italiani potranno guardare video in streaming senza rischiare di far collassare l’intera infrastruttura, ma per gli sviluppi più importanti sia in materia industriale (le cosiddette smart factory, in cui la raccolta dei dati nello stabilimento consente di programmare interventi di manutenzione e ridurre l’incidenza dei fermo macchina) sia in un’ottica di smart city. Anche perché i veicoli a guida autonoma non potranno circolare finché non si troverà un modo per far “dialogare” automobili, semafori, parcheggi, strade al ritmo di decine di Gigabyte al secondo. 

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Infine, investire sul digitale vuol dire creare nuovi posti di lavoro, qualificati, in un momento storico in cui – ma i dati sono già vecchi – oltre il 12% degli italiani lavoratori è a rischio povertà. Un dato che sale al 19,8% se si prendono in considerazione le persone che hanno, al più, un diploma di scuola superiore. Nessuna illusione: puntare sulle nuove tecnologie non significa dotarsi di bacchetta magica per fare diventare professioni “unskilled” (come si diceva durante la rivoluzione industriale) improvvisamente “skilled”, ma per mettere in campo le risorse necessarie ad avviare una transizione che riguardi l’intero processo delle conoscenze: dalla scuola, con l’istituzione di Its – centri di formazione post-diploma che consentono di creare specialisti delle nuove tecnologie applicate alla manifattura, con una percentuale di occupati dell’83% – che funzionino e che possano colmare quel divario che vede l’Italia con 9.000 iscritti e la Germania con 800.000 fino alla realizzazione di corsi di aggiornamento per tutti i comparti produttivi. 

Se poi invece si guarda al 37% destinato alla green economy, e dunque oltre 77 miliardi, qui bisogna intendersi ancora di più: che cosa è green? Parlare di sostenibilità, mai come in questo momento storico, è diventato di grandissima attualità e nessuna azienda può esimersi dal ragionare su questo tema. Eni, ad esempio, ha promesso di completare la decarbonizzazione entro il 2050. Un obiettivo molto ambizioso che può essere raggiunto da un gigante come il Cane a sei zampe.

Ma le piccole imprese? Qualcuno ha parlato del tema della sostenibilità come applicabile e calabile a qualunque comparto: il turismo sostenibile, il trasporto sostenibile, l’edilizia sostenibile e via dicendo. Ma come si traducono questi buoni propositi in qualcosa di più concreto? Come si aiutano le fabbriche a ridurre le emissioni, quando i fatturati crolleranno almeno del 10%, quando la cassa integrazione non sarà più disponibile in modo così massiccio e la pace fiscale sarà solo un ricordo? Finora il governo si è mosso bene. Ma serve un ulteriore colpo di reni entro il 15 ottobre. 

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