Royal Mail debutta in borsa e titolo sale del 36%
Di Marco Scotti
Da una parte c’è la Gran Bretagna, che decide di collocare in borsa uno dei suoi gioielli più puri, il servizio postale della Royal Mail, piazzando il 62% della compagnia a 3,3 miliardi di pound (330 pence per azione) e vedendo nella prima ora di quotazione alla borsa di Londra il titolo schizzare del 36%; dall’altro c’è l’Italia, che usa le Poste non come asset strategico, ma come bancomat per dare fiato a una compagnia aerea (Alitalia) ormai decotta, spolpata da una privatizzazione fatta male e rimasta sul groppone dello Stato per quanto riguarda la gestione dei debiti e del personale in esubero. Le differenze saltano subito all’occhio. Poste Italiane è un’azienda solida, in salute,che ha chiuso il bilancio 2012 con 24 miliardi di ricavi e con un utile netto di oltre un miliardo. Sarebbe utopia immaginare di collocarne una parte in Borsa, facendola rientrare in quel progetto, Destinazione Italia, che – per usare un eufemismo – sta lasciando i potenziali investitori alquanto tiepidi?
Naturalmente no, eppure preferiamo provare a vendere caserme e altri immobili di scarsissima attrattiva, pensando di essere furbi e di riuscire a trovare il proverbiale pollo che acquisti quegli edifici a prezzi gonfiati. Il risultato sarà, invece, che, posto che si riescano a vendere, saranno acquistati in saldo, riqualificati e rivenduti a cifre astronomiche. In barba ai nostri governanti furbetti che credono di riuscire a rendere appetibile ciò che non lo è.
Si dirà: ma in Italia, se dovessero decidere di vendere pezzi così importanti della nostra economia, si leverebbe un coro di critiche bipartisan che si incontrerebbero nello slogan “stiamo svendendo il Paese”. Anche in questo caso, la Gran Bretagna dovrebbe servirci da esempio: l’Ipo della Royal Mail è stato accompagnato da notevoli polemiche. Ma, si badi bene, non sull’opportunità o meno di mettere sul mercato l’azienda quanto, piuttosto, sul prezzo di collocamento. Secondo alcuni analisti, il costo per azione sarebbe dovuto essere quasi doppio, a quota 600 pence, producendo un ricavato di sei miliardi di sterline. Il governo guidato da David Cameron è accusato di aver svenduto il proprio gioiellino.
In Italia, invece, riusciamo a creare papocchi imbarazzanti, come nel caso Telecom: lasciamo che gli spagnoli ne prendano il controllo e poi proviamo a tornare sui nostri passi quando ci rendiamo conto che il danno rischia di essere drammatico, con una legge retroattiva sulla “golden power” che non incontrerà gli affetti dell’Ue. Oltretutto la storia dovrebbe insegnarci che le privatizzazioni, se ben fatte, producono un circolo virtuoso che dà nuova linfa all’economia. Il caso Eni è, da questo punto di vista, un esempio lampante: il Tesoro ha tenuto per sé una quota di poco superiore al 30%, ha collocato il resto in Borsa e ora il titolo rende circa il 6% all’anno. E nessuno si è mai sognato di dire che stavamo lasciando in mano al mercato un asset strategico come quello dell’energia.
Se Letta e i suoi ministri vogliono davvero iniziare un percorso di risalita, forse è bene che comincino a guardare agli esempi virtuosi che ci sono in Europa. Evitando la contemporanea spoliazione del sistema industriale e la paralisi istituzionale. Un obiettivo da raggiungere prima che sia troppo tardi.