RETE, PATRIMONIO E ASSET ESTERI: TUTTI I PUNTI INTERROGATIVI DELL'EQUITY STORY DI TELECOM
Non sono solo le dimissioni del presidente esecutivo Franco Bernabè a mantenere al centro dell’attenzione Telecom Italia, da mesi definita dalle case d’investimento di mezzo mondo una “equity story” ricca più di incognite che di certezze: con un indebitamento netto di 28,8 miliardi (che secondo gli obiettivi fissati nel piano industriale dovrebbe calare a 27 miliardi entro fine anno) ricavi in che nel primo semestre si sono fermati a 13,76 miliardi (il 2,7% in meno del primo semestre 2012) mentre l’Ebitda è sceso a 5.236 milioni di euro (-6,8% in termini organici, sempre rispetto al primo semestre 2012), il gruppo deve ormai prendere delle decisioni che finora sono state continuamente rimandate.
Il primo punto critico è la solidità patrimoniale, con un rating ormai sotto revisione da parte delle maggiori agenzie che rischia di essere tagliato a “spazzatura”, con implicazioni negative per quel che riguarda gli oneri finanziari per il gruppo. Per evitarlo occorrerebbe un aumento di capitale tra i 3 e i 5 miliardi di euro, ma è improbabile che Telco (holding di controllo col 22,4% del capitale in cui Telefonica è salita al 66% e potrà arrivare al 100% nel corso dell’anno venturo acquistando i titoli ancora in mano a Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo) sia disposta ad aprire più di tanto il borsellino, se non altro perché anche Telefonica è già pesantemente indebitata (49,8 miliardi a fine giugno, da ridurre entro quota 47 miliardi per la fine dell’anno) e a rischio downgrade, peraltro già scontato nei prezzi dei bond in circolazione.
Secondo irrisolto punto critico è l’eventuale conferimento della rete fissa italiana ad una Newco compartecipata da CdP (la quale vuole però evitare duplicazione di investimenti, visto che è già azionista rilevante di Metroweb), nella quale potrebbero confluire anche 21 mila degli oltre 53 mila dipendenti di Telecom Italia secondo quanto dichiarato dall’amministratore delegato Marco Patuano: in pratica 6 mila impiegati, quadri e tecnici oltre ai 15 mila dipendenti dei call center, cosa che ha messo in preallarme i sindacati che già temono pesanti esuberi a breve e parlano del rischio che quella che venne definita “la madre di tutte le privatizzazioni” si trasformi nella “figlia di tutte le svendite, anche per i posti di lavoro”.
Ma l’operazione, che ha una valenza industriale non inferiore a quella “politica”, per andare in porto ha bisogno di una certezza regolamentare in particolare per quanto riguarda la redditività degli investimenti sugli anni (ovvero del regime tariffario) che al momento non è dato sapere e che passa per il tavolo dell’Autorità garante delle comunicazioni (AgCom) cui spetterà il compito di metterla a punto contemperando le esigenze di riconoscere un ritorno alle aziende che effettueranno investimenti nelle infrastrutture con la creazione di adeguati spazi per lo sviluppo di una concorrenza di mercato.
Le sorti degli investimenti in Italia sono dunque complesse e legate da un lato alla capacità finanziaria di sostenerli da parte degli azionisti di controllo, e in questo senso Telefonica non avrebbe problemi dato che nel primo semestre dell’anno ha registrato un “free cash flow” operativo (la differenza tra la liquidità generata dalla gestione operativa e le spese per investimenti) di 5,52 miliardi di euro contro gli 1,28 miliardi di Telecom Italia (e infatti ha potuto spesare nel periodo investimenti industriali per 3,9 miliardi di euro , contro i 2,19 miliardi del gruppo italiano), dall’altro all’attrattività del mercato, e in questo caso qualche problema vi è indubbiamente e rischia di rimanere anche in futuro fintanto che la repressione fiscale voluta dall’Europa continuerà a deprimere la domanda domestica.
Ancora più complicato il destino delle attività internazionali: Tim Brasil e Telecom Argentina semplicemente non possono passare sotto il controllo diretto di Telefonica, come hanno già fatto sapere gli Antitrust dei due paesi ed anzi rischiano, nel caso di Telecom Argentina, di offrire il pretesto per una ri-nazionalizzazione della società, privatizzata nel 1990 e partecipata dal gruppo italiano al 21,1% (tramite Sofora, di cui Telecom Italia possiede il 68%) dal 2011. L’ultima novità in arrivo dal Sud America, ovvero la fusione tra fra l’operatore brasiliano Oi e la controllante Portugal Telecom, sembra rendere possibile la cessione di Tim Participacoes (meglio nota come Tim Brasil) alla stessa Oi-Portugal, ma si tratterebbe di capire a quali multipli l’operazione possa avvenire.
Con o senza Bernabè, Telecom Italia sembra comunque destinata a rompere gli indugi in merito alla riorganizzazione delle attività in Sudamerica e allo scorporo della rete d’accesso italiana. Operazioni che difficilmente eviterebbe il downgrade del debito del gruppo ma potrebbero ridargli quella flessibilità finanziaria necessaria a nuovi investimenti in futuro a ad un successivo recupero del merito di credito.
Luca Spoldi