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Economia
Tim-OF, la rete unica finisce a carte bollate.Il muro su cui la politica va ko

Sempre nel 2006, una proposta di scorporo della rete che contemplava l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti veniva recapitata sulla scrivania dell’allora presidente Telecom, Marco Tronchetti Provera a nome di Angelo Rovati, consigliere particolare dell’allora premier Romano Prodi che si è sempre detto all’oscuro di tale iniziativa. Rovati, travolto dalle polemiche, si dimise, Tronchetti Provera anche, il governo Prodi cadde l’anno successivo e di rete unica (a controllo statale) non se ne parlò più per un po’. Non tanto in verità: a inizio 2009 il governo Berlusconi sembrò tentato dall’appoggiare l’ingresso di Cdp e F2i con un 40% in una Newco che avrebbe dovuto ereditare la rete, il cui valore venne stimato dal “superconsulente” Francesco Caio pari a 15 miliardi di euro.

L’operazione continua a non scaldare l’animo del management (e degli azionisti) di Telecom Italia e resta ancora una volta nel cassetto. Nel frattempo il tempo passa e gli azionisti di Tim cambiano: con la crescita di Telefonica in Telco il governo Letta pensa sia il caso di tutelare il controllo di un asset “strategico” per il paese e include la rete di Tim tra gli asset per i quali il governo può invocare il “golden power” mentre il ministro delle Telecomunicazioni in carica, Antonio Catricalà, alza i toni e ribadisce: “Lo scorporo della rete è ancora un’idea necessaria per il paese, Telecom Italia deve metterselo in testa. Serve uno scorporo societario, con una buona quota in capo a Cassa depositi e prestiti”. Ma non si va oltre i proclami. 

Nel 2015 ci prova anche il governo Renzi, ipotizzando di la rottamazione definitiva del doppino in rame a favore della fibra Ftth (quella che arriva dalla cabina in strada fin dentro l’abitazione dell’utente) entro il 2030. Vista l’accoglienza meno che entusiasta da parte di Tim e di molti analisti e commentatori, Matteo Renzi corregge il tiro e l’anno successivo fa nascere Open Fiber (come joint-venture paritetica tra Enel e Cdp), creando un competitor a Tim nella coperture in fibra di tutta Italia, in particolare nelle aree a fallimento di mercato (inizialmente erano previsti interventi di OF in 224 città).

Passa un altro anno, al posto di Renzi il premier è Paolo Gentiloni, mentre Vivendi diventa l’azionista di riferimento dell’ex monopolista telefonico italiano col 23,685: dopo un comunicato di Tim in cui si prendeva atto dell’inizio dell’attività di direzione e coordinamento dell'azienda da parte della stessa Vivendi, il governo valuta se esistano i presupposti per esercitare il “goldan power”, cosa che non è ancora accaduta. In compenso nel marzo 2018 Amos Genish, amministratore delegato di Tim nominato da Vivendi, comunica all’Autorithy per le telecomunicazioni l’avvio di un progetto volontario di separazione della rete d’accesso.

Non è il gestore unico che suggeriva anche l’ex ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ma sembra andare nella giusta direzione, anche se Genish sottolinea con una punta di malizia che per un colosso come Tim con 4,6 miliardi di ricavi non ha senso mischiarsi con un “nanetto” come OF, con ricavi “per 70 milioni di euro nel 2017”. La fine della legislatura riporta le lancette all’ora zero, solo che nel frattempo in Tim è entrato il fondo Elliott Management, con poco meno del 9%, mentre anche Cdp acquista una quota del 5% (poi arrotondata al 10%) e vota insieme al fondo americano riuscendo nel maggio 2018 a mettere Vivendi in minoranza nel Cda di Tim.

Elliott ha un obiettivo: scorporare la rete e massimizzare la plusvalenza da restituire agli azionisti Tim e Cdp sembrerebbe in grado di assecondare il progetto grazie al ruolo di azionista di entrambe le società, il tutto con la benedizione della componente grillina del governo, ma sorgono nuovi problemi. Anzitutto l’operazione, che non darebbe realmente vita a un “gestore unico”, preoccupa i concorrenti, a partire da Vodafone e Wind Tre, poi arrivano una serie di stop da parte del management di Open Fiber, sempre meno convinto di uno schema che vedrebbe Tim controllare, di fatto, il nuovo gestore dell’infrastruttura “unica”. Schema che invece piace ancor più a Beppe Grillo che si schiera a favore senza se e senza ma e sogna un gestore unico per rete mobile, 5G, banda ultra larga.

In casa Tim l’operazione, sia pure valutata, continua a non entusiasmare e gli analisti che seguono la società non sono sorpresi: la rete è l’asset che garantisce l’attuale marginalità (per quanto compressa), la sostenibilità del debito (che in caso di scorporo andrebbe parallelamente scorporato) e a cui è legata la gran parte dei dipendenti (il cui destino andrebbe dunque deciso prima di ogni annuncio “storico”).

Ultimo ma non meno importante dettaglio, il ruolo di Enel non sembra convincere Grillo e M5S, che infatti pare apprezzare l’offerta avanzata dal fondo Maquarie sul 50% di OF di proprietà dell’ex monopolista elettrico italiano. Così le trattative tra Tim e OF sembrano avanzare con fatica e rischiano ora, con lo scoppio di una vera e propria guerra di carte bollate, di finire sull’ennesimo binario morto.

Luca Spoldi

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