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Esteri
Da Cina e gilet gialli al governo Draghi: così Di Maio si tiene la Farnesina
(fonte Lapresse)

Tutti dentro. Il governo Draghi è nato. E ne fanno parte un po' tutti. Si va da Liberi e uguali alla Lega, da Laura Boldrini a Matteo Salvini. In mezzo il Partito Democratico e Forza Italia. E poi, ovviamente, il Movimento Cinque Stelle decontizzato e dedibattistizzato. Un Movimento Cinque Stelle trasformista come il suo (molto retoricamente) ex leader politico, Luigi Di Maio. I grillini sono passati dal governo gialloverde con la Lega, quello dell'accordo sulla Via della Seta e dei decreti sicurezza, a quello giallorosso con il Pd di Nicola Zingaretti tornato atlantista ed europeista. Si è passati dai gilet gialli e dal prosecco di Shanghai agli ammiccamenti con Mike Pompeo. Parabola, quella del M5s e in particolare di Di Maio, che in Go East abbiamo raccontato più volte, per esempio qui.

Di Maio è riuscito a ottenere la conferma alla Farnesina. Sarà lui il ministro degli Esteri anche con Mario Draghi presidente del consiglio. Nei giorni scorsi era sembrato un risultato quasi scontato per due motivi: la richiesta di continuità su alcuni ministeri chiave da parte di Sergio Mattarella (anche Difesa, Interni e Salute mantengono lo stesso inquilino) e la lottizzazione politica degli incarichi. Di Maio, da frontman politico del M5s nonché fautore della linea "morbida" su Draghi, non poteva non ottenere un riconoscimento. E lui aveva fatto sapere di voler restare al suo posto alla Farnesina, da dove dirige non solo le relazioni diplomatiche ma anche l'export, suo antico cavallo di battaglia.

Eppure, se ci proiettiamo a qualche anno o anche solo a qualche mese fa, sarebbe apparso impronosticabile un Di Maio ministro degli Esteri di un ipotetico governo Draghi. Lui, tra i deus ex machina dell'accordo sulla Belt and Road con Pechino. Lui, frequentatore di gilet gialli insieme ad Alessandro Di Battista. Lui, protagonista di dirette Facebook per accogliere il materiale sanitario in arrivo dalla Cina durante le prime fasi della pandemia. Ma quello è il passato. Al di là di alcune gaffe, per restare alla Cina la più celebre è ovviamente quella del "presidente Ping", Di Maio ha dimostrato di essere un abile trasformista sia sul piano della politica interna sia sul piano diplomatico. Era stato descritto come un "equilibrista", per esempio durante la visita dell'ex segretario di Stato Usa Mike Pompeo a Roma di fine settembre.

Non è un mistero che, all'arrivo al governo, il M5s volesse avvicinarsi alla Cina. I viaggi a Pechino e Shanghai di Di Maio, Conte e Di Stefano erano stati numerosi, prima e dopo la firma del memorandum of understanding del marzo 2019. Con il passaggio al Conte bis, Di Maio aveva comunque mantenuto un occhio di riguardo per Pechino, con Conte "costretto" invece a ripiegare sull'atlantismo anche per i rapporti con Donald Trump (e William Barr). Sappiamo il peso che ha, anche indiretto, la Casa Bianca nelle dinamiche politiche italiane. Ne abbiamo parlato diffusamente la settimana scorsa, tra fine del Conte I, l'illusione di Salvini e il caso Savoini, la nascita del Conte II e infine la caduta di "Giuseppi" dopo l'avvento di Joe Biden.

Di Maio è stato in grado di fiutare l'aria. Lasciando aperto il dialogo con Pechino, ha comunque operato una progressiva svolta atlantista ed europeista, a partire dal tema del 5G. E allo stesso tempo è stato abile a sganciarsi dal destino di Conte, appoggiandosi ai suggerimenti di Beppe Grillo e di Rousseau. Di Maio, insomma, è diventato un politico. Ed è riuscito a conservare il posto in un governo che accoglierà al suo interno anche un'anima anti cinese e trumpiana.

Tratti che la Lega ha già cominciato ad attenuare, visto che il nuovo obiettivo è fare l'ingresso nel Ppe post Merkel in Europa e rendersi potabile per un nuovo governo di centrodestra anche all'America democratica di Biden. Percorso di redenzione nel quale comunque la linea ostile alla Cina rimarrà, e che potrebbe per assurdo rendere più facile la vita a Di Maio, che nell'ipotetico rendere conto a Pechino potrà scaricare la responsabilità sui vecchi alleati di governo tornati attuali compagni di viaggio.

Persino insieme alla truppa di Silvio Berlusconi, anche lui molto duro con la Cina "comunista" da diverso tempo, nonostante Mediaset faccia affari con aziende cinesi, a partire da Huawei. Nelle concitate ore prima che Draghi salisse al Quirinale, complice anche il fatto che i partiti sono stati informati delle scelte solo all'ultimo, si era anche diffusa la voce di un possibile arrivo di Antonio Tajani alla Farnesina. Sarebbe stato un segnale davvero nefasto sui rapporti bilaterali con la Cina viste le sue numerose esternazioni anti Pechino degli scorsi mesi.

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