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Esteri
Iran, più che una vendetta una richiesta di tregua. Ora la palla passa a Trump

Hanno aspettato l'una e trenta locale. Poi hanno lanciato più di 30 missili di Ain Al Asal e di Erbil. I Pasdaran iraniani hanno messo in atto un'azione a effetto per rispondere al raid degli Stati Uniti nel quale è rimasto ucciso lo scorso 2 gennaio il generale Qassim Soleimani. Ma la sensazione, dalle tempistiche alle modalità fino alle conseguenze pratiche dell'azione, sembra che più che una dichiarazione di guerra si tratti di un'offerta di pace, o quantomeno di tregua.

L'Iran aveva bisogno assoluto, impellente, di reagire all'uccisione del proprio uomo chiave sulla politica regionale e non solo. Da Teheran avevano fatto capire che la vendetta sarebbe arrivata in maniera fredda, calcolata, ragionata e in modo da fare più male possibile a Trump. Descrizione che poco si adatta a quanto successo nella notte in Iraq. L'azione è stata scenografica, attesa, per certi versi prevedibile. E, in attesa della concreta valutazione dei danni, le conseguenze pratiche dovrebbero essere state ridotte.

L'Iran sostiene che ci siano stati 80 morti, ma la realtà sembra molto diverso. Stando all'amministrazione Usa, al momento non risultano vittime statunitensi. E persino Bagdad ha affermato che non risultano morti iracheni. Certo, la base di Ain Al Asal, uno dei simboli della presenza militare americana in Iraq, sarebbe stata quasi completamente distrutta. Ma se fosse confermata l'assenza di morti statunitensi si potrebbe parlare di danno contenuto. Non si creerebbe insomma quella frattura che porterebbe in maniera pressoché inevitabile alla prosecuzione dell'escalation.

Khamenei ha dichiarato: "Li abbiamo schiaffeggiati, ora via le le truppe Usa dalla regione". Il presidente Rouhani ha invece detto che se gli Stati Uniti hanno "tagliato le mani" dell'Iran con l'uccisione del generale Soleimani, l'Iran invece "mozzerà le gambe" degli Stati Uniti. Ma le dichiarazioni sopra le righe sono nel gioco delle parti, e fatte anche per compattare un'opinione pubblica interna che era stata dilaniata nelle scorse settimane e mesi dalla repressione delle proteste di piazza.

I "veri" messaggi a Washington sembrano arrivare dal capo di Stato maggiore delle forze armate, Mohammed Baqeri e dal ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif. Il primo ha minacciato che "ci sarà una risposta più schiacciante e decisiva" come reazione "a qualsiasi nuovi mali" da parte degli Stati Uniti. Leggasi: fermiamoci qui. Il secondo ha ribadito che Teheran "non vuole la guerra" e ha chiesto all'Europa di fare ragionare gli Usa.

All'Iran serviva una mossa da poter "vendere" alla propria opinione pubblica che chiedeva in massa una reazione contro gli Stati Uniti. La avuta, ma la sua portata è tale da non compromettere la possibilità di una tregua, anzi la favorisce. A Teheran, infatti, non conviene per diversi motivi un conflitto aperto. E l'attacco missilistico alle due basi Usa rivela che neppure l'uccisione di Soleimani sembra aver fatto cambiare idea alla Repubblica Islamica in tal senso, che nel frattempo si è probabilmente accorta di avere pochi margini di manovra concreti per reagire in maniera diversa all'affronto lanciato da Trump.

Resta da capire come deciderà di comportarsi proprio l'inquilino della Casa Bianca. Trump può decidere di raccogliere il nemmeno troppo implicito messaggio di Teheran per la tregua o persino una de-escalation, uscendone vincitore per aver eliminato quello che riteneva un pericoloso nemico e aver contenuto i danni nella scontata replica di Teheran. Avrebbe gioco semplice, sottolineando il fatto che (se la cosa fosse confermata) non ci sono vittime americane. Oppure può decidere di reagire di nuovo, rischiando però di venire travolto in una crisi dai tempi lunghi e dalle conseguenze più che pericolose. Per gli Stati Uniti, per il Medio Oriente e per la sua presidenza. 

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