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Esteri
Italia troppo facile, meglio affrontare la realtà americana
Di Dom Serafini
 
Il 5 luglio del 2009 scrissi un articolo per “AmericaOggi”, il quotidiano italiano negli Usa: “Perché voglio che mio figlio vada a soffrire in Italia. In America é troppo facile”.
Cosa che mio figlio Yuri poi fece, nel 2010, iscrivendosi all’Universitá Bocconi a Milano e, come disse Julia Roberts nel film “Pretty Woman”, “[feci un] big mistake”. Ora non vedo l’ora che torni negli Stati Uniti, in un mondo dove le sfide bisogna affrontarle a mani nude. Quando l’articolo venne pubblicato, Yuri frequentava l’ultimo anno della Bronx High School of Science, e mi dava fastidio che sfruttasse troppo le facilitazioni che New York City gli offriva: mezzi pubblici in orario, negozi sempre aperti, farmacie H24 dietro l’angolo di casa. Tutto a portata di mano. Mentre era al liceo, si era perfino fatto assumere dal Comune di New York come bagnino estivo a 2.000 dollari al mese.
A mio avviso, la famiglia reale inglese manda i loro figli a fare il militare per far loro acquisire una marcia in piú. Per noi questa non era un’opzione, perché all’epoca il ragazzo avrebbe potuto finire in Iraq a combattere la guerra inutile di Bush. (Peró gli dissi che, se avesse insistito per avere il motorino, lo avrei mandato in Iraq perché statisticamente le probabilitá di sovravvivenza erano molto piú alte che guidare una moto.)
Per i parenti ed amici che erano in Italia, questa mia decisione aveva dell’assurdo: “Ma come”, mi rimproveravano, “tuo figlio ha la fortuna di vivere in America e tu lo mandi da dove tutti vogliono fuggire?” Poi proseguivano con l’elenco delle cose che non funzionavano in Italia.
Quello che i miei interlocutori non capivano era che volevo che Yuri studiasse in un’universitá in Italia appunto per tutti i problemi che mi avavano elencato.
L’America sarebbe stata troppo facile, e a mio avviso, senza una sfida vera, senza poter sviluppare quella marcia in piú che serve per affrontare il mondo di oggi.
A me ha sempre colpito il fatto che i napoletani, da tutti considerati “scansafatica” a Napoli, una volta arrivati in America fossero capaci di aprire due pizzerie nel giro di due anni, cosa che per un americano in gamba avrebbe richiesto almeno cinque anni.
Una volta in Italia, la prima cosa che notai di Yuri era come i ritardi dei mezzi pubblici che lo portavano all’universitá, gli scioperi frequenti, i negozi sempre chiusi quando se ne aveva bisogno e la microcriminalitá non gli dessero alcun fastidio. Si trovava a suo agio, anche perché era costantemente in ritardo e faceva le cose sempre all’ultimo minuto.
Prima ancora di laurearsi era riuscito a trovarsi un impiego, anzi due, di cui uno non gli piaceva e l’altro divenne fisso una volta laureato. Riusciva pure a risparmiare per coprire le spese future per il master alla Johns Hopkins, che, “sfortuna” mia, ha un campus a Bologna (oltre Nangjing, in Cina e nella sede di Washington, D.C.). E non é che Yuri si sacrificasse molto, in quanto amici bocconiani lo ospitavano spesso nelle loro baite di montagna e lo invitavano a feste e aperitivi.
Insomma, una vita troppo facile, che lo ha fatto diventare molto “laid- back” e troppo italiano: non la gavetta che mi aspettavo facesse. La mia missione é fallita: l’Italia puó essere comoda e troppo accogliente, meglio che Yuri torni in America e si scontri con la realtá che Washington D.C. gli presenterá per l’ultimo anno di universitá e la sfida per imboccare una carriera in un sistema competitivo e a volte brutale. Peró, chissá, forse come per i napoletani in America, l’esperienza in Italia gli tornerá utile.
 
 
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