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Esteri
Quel rapporto tra vegani e politica. Analisi


Il voto vegano — Il recente annuncio di Jeremy Corbyn, leader del partito Laburista inglese, di star “preparandosi” a diventare vegano ricorda il caso del ministro italiano dell’Ambiente che, in crisi di astinenza mediatica, ha convocato i giornalisti per dichiarare di essersi scoperto bisessuale.

L’evoluzione delle loro vite interne ha retto poco sui media mentre ci si domandava se la svolta avesse un significato. È sembrato di no e la questione è finita lì. Dei due casi, è l’abbraccio all’elettorato vegano il più interessante. Il fenomeno del vegetarianismo “spinto”—senza uova né prodotti del latte—è molto cresciuto negli ultimi anni. Secondi dati Eurispes, nebulosi, il 3% della popolazione italiana potrebbe essere vegano ormai, mentre altre stime più “lasche” arrivano perfino all’8%. Il fenomeno è forse giunto al punto di incidere sulla vita pubblica.

Quando è emerso in Inghilterra che la stampa dei nuovi biglietti di banca in plastica da cinque sterline impiegava una quantità minuta di sego—grasso animale—la protesta vegana è stata feroce. La Bank of England ha reagito magnificamente: “Non c’è problema, sostituiremo con l’olio di palma…”, una sostanza veganamente accettabile ma non molto popolare. Si è tornati poi, serenamente, al processo originale.

Il veganismo attuale nasce da un equivoco. In origine—il “credo” risale al 1944—la motivazione era di tipo puramente etico/morale: il rifiuto dello sfruttamento dei nostri fratelli animali. Per l’ortodossia vegana, non era immaginabile l’aderente con le scarpe o la borsa di cuoio, né il consumo del miele e dei prodotti di cera d’api. La dieta non aveva finalità salutiste. Anzi, si accettavano di buon grado i prodotti sostitutivi derivanti dalla sintesi chimica come una sorta di costo della purezza morale. Non era di per sé una ricerca del “naturale”. Poi, strada facendo, la pratica si è incrociata con il più recente rifiuto dell’industriale e del consumo di massa—e la preoccupazione per la linea.

Oggi troviamo il paradosso che, mentre i vegani evitano carni e formaggi, i liquori forti vanno bene. Lo scotch Macallan e la vodka Absolut, essendo totalmente vegetali, sono “vegan friendly”—come in linea di principio il tabacco, per quanto molte sigarette industriali contengano additivi d’origine animale. Ma vanno bene le Winston: “vegane” non perché prodotte per esserlo, ma in quanto la manifattura non prevede materiali vietati—cosa vera anche della Coca Cola peraltro. È il tabacco più dei liquori che mette in imbarazzo il movimento. Si vorrebbe bandirlo, arzigogolando che “ecco, hanno fatto test sugli animali per dimostrare che fa male”—però, se vogliono, anche i più rigorosi vegani possono bere e fumare.

Possono anche votare, ed è lì che volevamo arrivare. Se—e come—voterebbero in blocco però è abbastanza un mistero. Il veganismo (almeno quello Usa) è prettamente borghese e fortemente femminile (79%). L’orientamento generico “progressista” è indubbio, come però anche l’attenzione ai temi “verdi”, che invece, visto l’aspetto anti-moderno, è spesso fondamentalmente conservatrice.

Potrebbe non importare molto. L’etichetta è sovente più un’aspirazione che una realtà. In una ricerca Usa dei nutrizionisti Ella Haddad e Jay Tanzman su 13mila vegetariani “dichiarati”, 2 su 3 hanno ammesso di avere consumato carne entro le precedenti 24 ore. Un’altro studio specificamente sui vegani dimostra che il 70% torna poi alle abitudini carnivore—meglio dei vegetariani semplici però, che cedono all’86%.

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