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Esteri
Trump e Berlusconi: l'unica differenza? L'altezza

Di James Hansen

Donald Trump è un palazzinaro settantenne di New York, fino a poco fa noto soprattutto per essere molto ricco, molto vanitoso e parecchio stravagante. I suoi improbabili “riporti” sono leggendari. È sicuramente intelligente, ma di certo non colto. Il suo genio si esprime perlopiù attraverso due attività principali: la promozione immobiliare e la promozione di se stesso.

È attratto dalle donne alte e vistose ed è un “grande comunicatore” di massa. Non è però basso di statura. Altrimenti il paragone con Silvio Berlusconi—con cui condivide il gusto per il fondotinta arancione—sarebbe perfetto anziché meramente calzante.

Per l’osservatore straniero, poco toccato dalle divisioni ideologiche italiane, la cosa straordinaria della carriera politica di Berlusconi è che è stata inizialmente lanciata più dai suoi oppositori che da lui stesso. Alla fine degli anni ‘80, Berlusconi era solo un palazzinaro milanese, ricco, vanitoso e parecchio stravagante. Aveva sì tanti soldi, ma non era tra quelli che contavano. Per “pesare”, allora pesava poco.

Poi, con la scalata Mondadori, si scontrò con l’allora Re della Borsa, Carlo De Benedetti—e lo fece a pezzettini. Le cronache giudiziarie hanno raccontato come, ma l’importante fu la vistosa vittoria. In seguito, le testate del Gruppo Espresso condussero per anni una pesante vendetta quotidiana (o, nel caso dell’ Espresso stesso , settimanale) per indicare in Berlusconi la personificazione del Diavolo: dando, senza volerlo, spessore e credito al personaggio.

Al Partito Democratico della Sinistra pareva un meraviglioso uomo di paglia, il candidato che vuoi avere dall’altra parte, la perfetta rappresentazione del male che opponi. Andavano verso le elezioni del ‘94, certissimi di vincere e dichiarando di volere spogliare Berlusconi delle sue reti e mandarlo in esilio in caso dell’inevitabile vittoria. Non è andata così. Senza volerlo, i suoi nemici avevano accreditato Silvio Berlusconi come un punto di coagulo per una vasta parte del Paese che non si sentiva rappresentata né dal grigiore cattolico, né dal marxismo light del PDS ancora in cerca di un’identità “occidentale”. L’improponibile Donald Trump—e lo è davvero, ma sorvoliamo—è stato dileggiato e massacrato da ogni parte (compresa quella classicamente Repubblicana) dell’Establishment mediatico americano che conta, il perfetto uomo di paglia per l’inevitabile vittoria di Hillary Clinton.

Facendone un facile bersaglio, gli organi di stampa e gli autorevoli commentatori hanno però dato a lui uno spessore “preterintenzionale” che altrimenti non avrebbe mai avuto. È curioso l’uso che si fa della parola “populismo”. Parrebbe indicare ciò che piace “troppo” alle masse, un concetto strano in democrazia. Nel caso di Trump come di Berlusconi, il senso di soffocamento provocato dall’eccesso di “buonismo democratico universale” ha di nuovo stimolato la creazione di un mostro, populista e disgraziatamente popolare. L’Establishment Usa continuerà a scommettere sull’ancora probabile vittoria della gelida e antipatica Clinton—tanto, non ha scelta—ma l’inattesa concretezza della candidatura Trump provocherà una reazione ancora più stridula che, come abbiamo visto in Italia, potrebbe convincere una parte non modesta dell’elettorato che lui “deve star facendo qualcosa di buono se quelli là lo odiano tanto...”

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