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Libri & Editori
Leonard Cohen, Marianne Ihlen e quelle strane storie sull’isola di Hydra

Ci sentiamo su Zoom. Lei vicino a Southampton, io a Reading. Sarebbe stato bello poter chiacchierare faccia a faccia, ma non è tempo: l’immaginazione deve piegarsi alla realtà delle cose, in questo aprile 2021. “Recupereremo quando ci vedremo in Italia, per la promozione del libro”, le propongo per rompere il ghiaccio. “Oh, sarebbe bello – sorride Tamar – adoro l’Italia, si dice che ai festival letterari italiani il pubblico sia molto caloroso”. “E non mancano i fan di Leonard Cohen: il tuo libro non passerà certo inosservato”, aggiungo io.

“Guarda – reagisce lei – a qualche fan il romanzo potrebbe non piacere. Sai, ho ricevuto moltissimi commenti positivi, e calorosi, in questi due anni, da quando il libro è uscito in Inghilterra. Ma qualcuno ha criticato il modo in cui ho raccontato Cohen. Perché l’ho raccontato non come un mito, come un intoccabile, ma come un essere umano: geniale, certo, ma anche misterioso, oscuro, con i suoi difetti, come tutti…”.

L’hai romanzato molto, Cohen?

No, al contrario: ho scritto solo cose vere, verificate: avrei rischiato di essere querelata, altrimenti. Ma l’uomo Cohen, per come emerge dalla relazione con Marianne e dalla sua vita sull’isola di Hydra, non coincide sempre con il personaggio Cohen, con il poeta e il cantautore venerato da tre generazioni di fan.

D’altronde tu c’eri, lo hai visto, conosciuto…

Ero molto piccola, avevo quattro anni quando i miei genitori si stabilirono sull’isola, a metà degli anni Sessanta. Mio padre era uno scrittore, mia madre una pittrice, e andarono a vivere su Hydra attirati dalla comunità di artisti che vi si era stabilita. Quindi sì, io c’ero, e c’erano i miei, testimoni diretti di quel clima, di quell’ambiente. E poi negli anni ho fatto ricerche sulle persone che vissero lì, a partire dallo stesso Cohen. Non volevo scrivere inesattezze su di loro, per una forma di rispetto non solo nei confronti dei miei ricordi, ma anche e soprattutto delle loro vite, delle loro persone, del loro vissuto collettivo.

Immagino tu sia tornata più volte a Hydra, negli anni, no?

In realtà no. Da quando i miei lasciarono l’isola non vi sono più tornata. Ho sentito persone del posto, ho chiacchierato con le persone dell’ambasciata greca di Londra, per scambiare con loro le mie impressioni sulla storia del loro paese negli anni Sessanta, sulla vite nelle isole prima che diventassero meta del turismo di massa. Ma no, non volevo che l’isola di oggi, degli ultimi vent’anni, così cambiata, si sovrapponesse nel mio sguardo all’isola che volevo raccontare io, quella di quel periodo. Avevo paura che rivedendo quei posti mi sarei confusa, mi sarei lasciata confondere da ciò che oggi c’è, ma che allora non esisteva ancora: strade, locali, perfino volti. Non tornare quindi alla fine è stato un vantaggio, per scrivere il libro: mi ha evitato di modernizzare quel racconto, e di scriverlo pensando agli abitanti e ai viaggiatori, così diversi da quelli di ieri.

Eppure le descrizioni di ambienti, strade, fiori sono così dettagliate: solo il frutto della tua memoria?

No, non direi. Anzi. Grazie ai diari di mio padre, ai suoi appunti, ho potuto riscostruire non solo le biografie, e le caratteristiche di certi posti, di certe abitudini, ma anche la flora, i luoghi, i profumi, i cibi. Volevo che i lettori potessero percepire proprio quell’isola lì, che attraverso i dettagli potessero immaginarvisi immersi. Una mia lettrice mi ha scritto, qualche mese fa, che leggendo il romanzo le veniva spesso appetito, per la descrizione accurata dei pasti. L’ho trovato un grande complimento: voleva dire che ero riuscita a fare esattamente quello che speravo: essere chiara nei dettagli, permettere al lettore di fidarsi di me, trasmettere un’esperienza quasi sensoriale.

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