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Smith, la sua lezione è ancora attuale: i governi dirigisti frenano l'economia

Smith ridicolizzò la teoria della bilancia commerciale mostrando l'impossibilità che potesse essere permanentemente in attivo e denunciò il mercantilismo come politica anti-consumatore. Essa trascurava il fatto che l'importazione di prodotti più economici avrebbe abbassato i prezzi interni ed aumentato il potere d'acquisto dei sudditi. L’economista scozzese scrisse: “Nulla è più assurdo della dottrina della bilancia dei pagamenti. ”Un paese che abbia i mezzi per acquistare l'oro e l'argento non sarà mai povero di questi metalli”. Qual’erano i “mezzi” per acquistare i metalli preziosi? Per Smith erano "lavoro" e "capitale" la cui efficienza, incrementata dalla divisione del lavoro, era la vera fonte di ricchezza.

In particolare, Smith vide con chiarezza il ruolo decisivo del capitale, cioè dei mezzi di produzione, nel mettere in moto la vita economica e nell’incrementare la produttività del lavoro, ispirando così anche Marx. Per Smith, nella misura in cui uno stato si sentiva ricco perché possedeva metalli preziosi e monopoli, non avvertiva l'esigenza di accumulare capitale nella forma di mezzi di produzione industriali. Fu così che, nella gara per aumentare il surplus delle bilance commerciali, i governi mercantilisti si autoannientarono. Quando suonò l'ora del decollo industriale, furono prima l'Inghilterra, poi gli Stati Uniti a diventare “officine del mondo”, non i paesi mercantilisti la cui dottrine basate sull’aumento riserve monetarie ad ogni costo, mandarono in rovina l'industria e il commercio privati.

Per una singolare coincidenza La Ricchezza delle Nazioni fu pubblicato lo stesso anno della Dichiarazione di Indipendenza americana. Sul contrasto fra Gran Bretagna e America, Smith si era formato idee molto precise. Considerando il monopolio inglese degli scambi delle colonie “uno degli espedienti odiosi del sistema mercantile”, propose di dare l’indipendenza all’America qualora i coloni avessero rifiutato la tassazione per sostenere gli oneri dell'Impero britannico. Secondo Smith, il massimo della prosperità nazionale risultava dalla libertà economica. Il governo doveva laisser faire, permettendo alle naturali inclinazioni dell'uomo di operare liberamente, scoprendo attraverso tentativi ed errori il lavoro di cui era capace e il posto che era in grado di occupare nella società, essendo libero di affogare o di riuscire a stare a galla. “Lo Stato ha solo tre doveri: primo, difendere la società dalla violenza; secondo, difendere l’individuo dall’ingiustizia o dall'oppressione di qualcun altro; terzo, mantenere in efficienza opere ed istituzioni che il privato non avrebbe mai interesse a erigere o mantenere operanti”. Era, in sostanza, la formula di governo di Thomas Jefferson, l'abbozzo di uno Stato che avrebbe consentito al capitalismo industriale di svilupparsi e fiorire quanto più era possibile.

Fu la dottrina smithiana a preparare la strada per sconfiggere lo schiavismo in America quasi un secolo dopo. “Il lavoro compiuto da uomini liberi costa di meno di quello eseguito dagli schiavi” aveva scritto. Smith fu il primo a capire che la schiavitù era un'istituzione ostile alla produzione della ricchezza, dato che non solo privava lo schiavo dell’incentivo a produrre e a intraprendere ma impediva anche la formazione del capitale. Poiché il capitale è per definizione ricchezza riproducibile, nella misura in cui il Sud si sentiva ricco perché possedeva schiavi, non sentiva l'esigenza di accumularlo.

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