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L'Espresso, parla l'ex vice di Damilano: "Agnelli? Meno furbi di Berlusconi"
Alessandro Gilioli

L'Espresso, il punto di vista dell'ex vicedirettore Alessandro Gilioli. Dagli albori fino alle dimissioni di Damilano e la cessione di Gedi

La storia di un giornale in un post su Facebook. Con un post sul social network più famoso del mondo, anche piuttosto amaro, l'ex vicedirettore dell'Espresso Alessandro Gilioli racconta una parte di storia del settimanale romano appena acquisito dalla Bfc Media di Danilo Iervolino. Questo, il post per intero del giornalista milanese classe 1962.

Nell'apocalisse delle immagini di guerra, nell'uragano di dolori e torti che ci massacrano l'anima già devastata da due anni di epidemia, questa di cui parlo qui è cosa talmente piccola che quasi mi vergogno a scriverne. Lo faccio quindi con gli occhi del miope, dell'autocentrato: insomma, perché è stato un pezzo importante della mia vita. E, professionalmente parlando, il più importante, fino a meno di due anni fa.

Nel cortile di via Colombo, sede della Repubblica e dell'Espresso, ci sono delle macchinette del caffè. È lì che ci si incontrava tra colleghi e si chiacchierava delle cose ufficiose, quelle che poi - quasi sempre - diventavano vere.  Ed è lì che un giorno ho saputo che la Fiat ci voleva comprare. È un esperienza strana, "essere comprati", chi l'ha provata lo sa. Ti senti un po' una pecora in un gregge che viene pesata e poi passa da un padrone all'altro. Capisci che succedono cose molto più in alto di te, tra miliardari felpati, che impatteranno sulla tua vita senza che tu possa fare assolutamente niente.

In un giornale però c'è qualcosa di più, visto che produce informazione, inchieste, opinioni. Non ti chiedi solo quale sarà il tuo destino personale. Ti chiedi anche quanto sarà più larga o più stretta la mordacchia. Perché, come ovvio, nessun giornale che abbia un padrone è privo di mordacchia; la questione è solo quanto è stretta o larga, insomma qual è il margine di indipendenza e di libertà.

Diciamo la verità: era assai lasca e di fatto impercettibile quella mordacchia quando a capo della baracca c'era il Principe, come veniva chiamato Carlo Caracciolo. Insomma, si era sostanzialmente liberi. Uomo di mondo, gran viveur, sempre divertente e divertito dalla vita. Il giorno in cui fui assunto all'Espresso – era la fine del 2002 – passai per il vaglio di prammatica del colloquio nel suo ufficio, anche se ormai era cosa fatta, grazie a Daniela Hamaui. C'erano dei quadri alle pareti con cui avrei sistemato un paio di generazioni di Gilioli e questa fu la prima, stolta, cosa che pensai.

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