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Giletti sotto scorta per aver indagato sui boss, nel silenzio della politica

Ormai ci siamo, mancano solamente quarantotto ore al countdown di questo infausto fine anno e, come ogni “tramonto” che si rispetti, i bilanci sono d’obbligo. Se, per ipotesi, nel variegato e poliedrico mondo del piccolo schermo dovessimo stilare una classifica dei giornalisti più spregiudicati, arditi, kamikaze e/o “impertinenti” del 2020, il biellese Giletti (59 anni a marzo) sarebbe indiscutibilmente in cima alla lista.

In epoche non sospette, e neanche troppo lontane, minacce concrete come quelle dei vari La Barbera o dei Graviano (carpite dal GOM della penitenziaria) avrebbero avuto un certo peso sull’opinione pubblica e l’indignazione generale si sarebbe fatta sentire a qualsiasi livello. Nonostante il conduttore di “Non è l’Arena” sia sotto scorta dal mese di luglio, quando ha cominciato la sua strenua crociata contro lo sfacelo della gestione (poco limpida) del Ministero di Grazia e Giustizia e contro la scarcerazione di centinaia di boss da 41bis lasciati ai domiciliari nelle proprie abitazioni, poche, a dire il vero, le “rappresentanze” politiche che si sono dimostrate solidali.

Un silenzio che la dice lunga. Ma i suoi affondi a Cosa nostra, alla Camorra, alla ’Ndrangheta, ai vitaliziati e agli amministratori incompetenti e, ohibò, collusi, ha origini lontane, molto prima dell’affare Basentini e company. Le inascoltate sorelle Napoli di Mezzojuso (comune in provincia di Palermo sciolto grazie a lui, come previsto dall’articolo 143 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), la love story tra il cantante melodico Tony Colombo e la consorte Tina Rispoli, lo scandalo dei parcheggi abusivi in terra partenopea, le pensioni faraoniche degli ex deputati/senatori, i riflettori sulle cosche Mancuso del vibonese, le bordate al governatore De Luca e via cantando. Ce n’è per tutti; questione “mastodontico” archivio Inps, reddito di cittadinanza mal gestito e – nelle ultime settimane – persino il disastro pandemico; messo in luce dalle rivelazioni (poco diffuse anch’esse) dell’Organizzazione mondiale della Sanità in merito all’incapacità del nostro governo di adottare un piano efficace nella lotta al Covid-19, vicenda sulla quale sta indagando il Tribunale di Bergamo.

E’ fastidioso Massimo Giletti, un cane sciolto (il guardasigilli Bonafede ne sa qualcosa), nato nelle trincee di Mixer di Giovanni Minoli e cresciuto nei canali pubblici sotto l’ala di Michele Guardì, per molti un eroico “missionario” della legalità, per taluni - invece – un insopportabile rompiscatole, malvisto dalla stragrande maggioranza dei suoi colleghi, vuoi per gli straordinari risultati di audience, vuoi per quel pizzico d’invidia da scoop che aleggia quando si alzano polveroni mediatici, vuoi per il troppo, secondo il “gotha” degli intellettualmente corretti, spazio dato alle opposizioni parlamentari (in certe reti il “clan” dei forti la fa con frequenza da padrone) e vuoi perché ha puntato il dito laddove non si doveva puntare; sui palazzi del potere, Via Arenula in primis.

Ma l’imprenditore prestato alla Tv (o viceversa) non fa sconti a nessuno e quando c’è stato da lanciare staffilate gelide ci ha messo spesso del suo; faccia, tesserino e casellario. La brutta storia “svuota-carceri” ha sollevato un gran caos e tutt’ora resta uno dei misteri irrisolti di questa discussa e ingarbugliata legislatura. Le corpose interviste a Nino Di Matteo, uomo di peso della magistratura italiana, sono una parte significativa del successo della sua “creatura”, così come gli illuminanti approfondimenti in studio di due illustri ex del comparto giudiziario; Sabella e De Magistris, della mal sopportata Nunzia De Girolamo, orgogliosamente difesa (come lei stessa ha confessato) dal titolare della trasmissione e della presenza fissa del Vice Ministro anticasta (lui sì!) e controcorrente Pierpaolo Sileri.

Forse solo Maurizio Costanzo era arrivato a tanto con Falcone, e poi ci ricordiamo come è andata fuori del Parioli di Roma. Dopo decenni di noia, pavidità e pochi attributi, Giletti ha rimesso in pista un argomento alquanto attuale, scomodo e debitamente accantonato per ovvi motivi di opportunismo; il rapporto tra pezzi delle istituzioni e la criminalità di stampo mafioso. Mezza Sicilia lo odia, tre quarti della Campania idem e una parte consistente dell’esecutivo di stanza a Chigi - se ne avesse la possibilità – lo caccerebbe a calci in culo.

Tuttavia Cairo, da buon editore, resiste. Dati e ascolti ripagano appieno l’azienda, anche se, a non ripagare (mai!!!), sono i rischi troppo elevati per un professionista che da qualche mese, per combattere a favore della comunità (e dei più deboli) e contro certi meccanismi stantii e omertosi, ha poggiato sul piatto, come preziosa contropartita, la propria vita. Qualcuno poi logicamente si chiede, ma ne vale veramente la pena? Secondo il diretto interessato, abituato a sfilacciare e inscatolare balle di cotone nella ditta di famiglia, la battaglia per la verità è sempre il bene supremo.        

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