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Sostegni pubblici all'editoria e libertà di stampa, tra dicerie e dati reali

Contributi ai giornali: l'Italia è lontana dalla vetta europea


Quando i giornali parlano del settore dei media corrono il serio rischio di incorrere nell'autoreferenzialità, peccato capitale per chi fa il nostro mestiere. Pur con questa consapevolezza, affaritaliani.it non ha mai avuto timore nello scrivere di questi argomenti. Giornali che parlano di giornali? Sì, proprio perché un compito essenziale dell'informazione è raccontare le dinamiche del potere (compreso il quarto) e il giornalismo è un cardine essenziale per l'esercizio della democrazia. Se fatto come si deve, il nostro lavoro consiste nell'essere il cane da guardia di chi comanda, in politica come nell'economia, fornendo così ai cittadini le informazioni necessarie per formarsi una propria opinione sul mondo in cui vivono. 

Proprio per questo, l'informazione nel mondo occidentale vive una sorta di paradosso: da un lato è affidata alla libera impresa dei privati – e quindi segue le regole ferree del mercato – ma dall'altro è giustamente considerata “un bene pubblico, che come tale ha bisogno di sostegno pubblico”. Questa definizione non è stata coniata da un dirigente del partito comunista cinese, che sull'informazione ha un'influenza più che evidente, ma dall'economista americano Joseph Eugene Stiglitz, premio Nobel nel 2001. Se questa visione è tendenzialmente accettata nei paesi dove vige l'economia di mercato, la sua applicazione pratica differisce in maniera sensibile a secondo della latitudine. Lo si legge chiaramente nel dossier “Il sostegno all'editoria nei principali Paesi d'Europa”, pubblicato dal Dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio. Numeri alla mano, si smonta quella sorta di leggenda metropolitana che vede nei contributi ai giornali un'applicazione della filosofia tipicamente italiana del “tanto paga Pantalone”.  

Tra i primi sette Paesi del Vecchio Continente, anzi, ci classifichiamo tra il quinto e il sesto posto, in base al criterio di misurazione adottato: siamo quinti se consideriamo il rapporto tra i sostegni pubblici e il Pil, mentre scendiamo al sesto in relazione alle risorse pro capite. A comandare la classifica sono Danimarca, Svezia e Norvegia, in una tendenza nordeuropea spezzata solo dalla Finlandia, che si classifica abbondantemente ultima, risparmiandoci gentilmente l'onta della maglia nera. L'Italia è nettamente dietro anche a Francia ed Austria, in una graduatoria solo parziale perché risente delle diverse regole in vigore in ciascun Paese. Tuttavia, la tendenza al sostegno nei confronti dell'informazione è presente ovunque, basti pensare che nel Regno Unito – che non figura in questa analisi – i prodotti editoriali sono esenti dall'aliquota IVA, al pari di un genere di prima necessità come il pane. 

In Italia i cordoni della borsa sono decisamente meno larghi ed è significativo (nonché decisamente trasparente) che a dirlo sia proprio chi è deputato ad occuparsi del tema. Ha ragione il sottosegretario Giuseppe Moles nel sottolineare come nel nostro Paese viga una cultura del sospetto tale per cui ogni sostegno pubblico ai giornali viene visto come una sorta di captatio benevolentiae da parte della politica, che potendo influire sulle sorti economiche dei mass media potrebbe anche facilmente limitarne l'autonomia di azione. Il problema esiste – almeno potenzialmente – e sarebbe disonesto nasconderlo, ma esiste anche un legittimo interesse da parte della politica nel chiedere collaborazione a giornali e tv nel gestire l'informazione sanitaria in tempi di emergenza. Le recenti parole del Presidente Mattarella e del Ministro Giorgetti sono state piuttosto eloquenti, ma appelli alla responsabilità mediatica altrettanto accorati sono arrivati anche in altri momenti storici, quando a preoccupare erano le tensioni sociali, il terrorismo interno oppure quello islamico. 

È giusto che i politici dicano queste cose, ma è altrettanto giusto che i giornalisti facciano in maniera autonoma ciò che ritengono giusto, peraltro assumendosene la responsabilità. Perché qualcuno con la schiena dritta ancora esiste e non è affatto detto che i contributi pubblici producano per forza un giornalismo addomesticato: anzi, la classifica del World Press Information Index dice chiaramente che l'informazione più libera è proprio quella dei paesi scandinavi, gli stessi che primeggiano nella lista dei sostegni statali! Pertanto, è bene che del tema si continui a parlare, senza ipocrisie, ma soprattutto partendo dalla realtà fattuale: la diceria sul fatto che in Italia si scialaccquino soldi per mantenere in vita i giornali è semplicemente falsa. Discutiamo pure sui criteri di assegnazione, perché invece è verosimile che alcune testate campino solo in ragione di questi finanziamenti, ma facciamolo sulla base di informazioni comprovate. Anche perché il nostro lavoro è esattamente questo: raccontare la realtà, smontando luoghi comuni che possono essere anche molto fuorvianti. 

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