Milano
La guardiana del giardino. Erville e i suoi settant'anni di impegno silenzioso in una casa popolare milanese
La lezione della signora Brioschi, residente dal 1954 in Via Morgantini: "Devi impegnarti per quello che c'è intorno: è di tutti, ma è anche tuo"

Erville Brioschi
La guardiana del giardino. Erville e i suoi settant'anni di impegno silenzioso in una casa popolare milanese
C'è una finestra, in via Morgantini, che da settant'anni si apre sempre alla stessa ora del mattino. Dietro quella finestra c'è Erville Brioschi, novantadue anni portati con la grazia di chi ha attraversato la vita senza mai abbassare lo sguardo. Era il giugno del 1954 quando varcò per la prima volta la soglia di quella casa popolare dell'Aler, ventunenne sposa con un tailleur cucito a mano - quello che avrebbe voluto cucirle sua madre, se solo fosse vissuta abbastanza per vederla in abito da sposa.
"Sì, sono dal 1954 in questa casa popolare. Una vita intera", racconta con quella voce che è insieme dolce e ferma, come chi ha imparato che la gentilezza non esclude la determinazione. E di determinazione, ne ha avuta da vendere. “Perché quando sei in una casa e ci devi costruire la tua vita - dice - devi impegnarti anche per quello che c'è intorno. È di tutti, ma è anche tuo".
Alle sei del mattino, quando Milano ancora dorme e i palazzi popolari sembrano giganti addormentati, Erville scendeva nel cortile condominiale armata di annaffiatoio e scopa. Non era il suo giardino, tecnicamente. Era di tutti e di nessuno, come spesso accade nei condomini popolari, dove la proprietà comune diventa terra di nessuno. Ma per lei, quel giardino era un'estensione della sua casa, del suo mondo, della sua dignità.
Bagnava, scopava, potava le rose, piantava giacinti che in primavera trasformavano quel cortile in un'esplosione di colori e profumi. "Era bellissimo, la gente passava e lo guardava", ricorda con gli occhi che brillano ancora al ricordo di quella bellezza conquistata con le mani. Una volta, una vicina la rimproverò per aver colto una rosa. La risposta di Erville fu semplice e definitiva: "Lei no. Io sì, perché curo il giardino. Quando lei farà quello che faccio io, allora potrà". Il diritto a godere delle belle cose, sostiene Erville, bisogna guadagnarselo, almeno un po'.
Ma la vera forza di Erville non si è espressa solo nella cura silenziosa del verde. Quando il lampione fuori dalla scala non funzionava e gli inquilini brancolavano nel buio, quando i piccioni nidificavano nel sottotetto trasformandolo in un ricettacolo di sporcizia, quando tutti dicevano "facciamo, facciamo" ma nessuno si muoveva, prese carta e penna.
"Ho scritto al Presidente, alla Regione Lombardia, a tutti", racconta con l'orgoglio di chi sa di aver fatto la cosa giusta. Era il 1990 quando iniziò quella che definisce la sua "battaglia di carta". Ingegneri, dirigenti, funzionari: tutti ricevettero le sue lettere, precise, puntuali, inesorabili. "Questa casa è pubblica, è un bene di tutti. Doveva essere tenuta bene".
La custode del palazzo, anni dopo, avrebbe riconosciuto pubblicamente il suo impegno: "Dovete ringraziare la signora Brioschi, senza lei non facevano nulla". Quante notti si è svegliata con un pensiero fisso: "Domani devo fare questo". E lo faceva, sempre, con quella tenacia che solo chi ha lottato tutta la vita possiede.
Nella vita di Erville c'è stato anche il dolore, quello profondo che ti scava dentro. Un marito "onesto e lavoratore" che però giocava e non portava soldi a casa. Il momento in cui scoprì della ludopatia del marito fu l'unica volta in cui sentì di non avere abbastanza forza. "Forse avrei dovuto dividermi", si è chiesta per anni. Ma poi arrivò la risposta, nella voce di suo figlio bambino: "Io voglio il mio papà". Ed Erville rimase, per amore, per dovere, per quella convinzione profonda che la famiglia, come la casa, richiede impegno e sacrificio per le cose giuste.
Il momento più bello di settant'anni in quella casa? Il diciottesimo compleanno del figlio. Quel ragazzo cresciuto con “una madre che era stata tutto, madre, padre, sorella, fratello -mi disse quel giorno – e poi mi abbracciò forte e mi disse grazie. Se mi avesse dato un milione non mi avrebbe fatto così felice", racconta Erville, con la soddisfazione di chi ripercorre una vita spesa bene.
Oggi Erville ha novantadue anni. Il figlio le ha proposto tante volte di trasferirsi, di trovare una casa più comoda, magari più bella. Ma lei resta. "Davanti ho il sole, ho le piante. Ho lottato tanto". Non è ostinazione la sua, è amore. Per quel luogo che ha visto la sua vita svolgersi, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione.
Erville Brioschi incarna una Milano non fa notizia, ma che costruisce, giorno dopo giorno, l’anima della città. È la storia delle case popolari raccontata non attraverso denunce di disagi, ma attraverso gli occhi di chi quelle case le ha trasformate e cerca di trasformarle ogni giorno in luoghi di vita, di dignità conquistata.
Ci ricorda che esiste un'altra via: quella della cura personale per il bene comune, della responsabilità individuale che diventa beneficio collettivo. "Tocca all'Aler, tocca al Comune", dicono gli altri inquilini. "Ma come si fa ad andare avanti così?", risponde lei.
La finestra di Erville Brioschi continua ad aprirsi sul cortile, ogni mattina alle sei. Torneranno presto le rose. Oggi c’è il cantiere per la riqualificazione del condominio. Dietro quella finestra c'è una donna che esprime una verità semplice e rivoluzionaria: la dignità di un luogo dipende anche alla cura di chi lo abita.
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