Milano
Questa è la Milano che ci siamo cercati. Tre riflessioni sulle parole di Delpini
L'arcivescovo di Milano è entrato a gamba tesa alla vigilia di Sant'Ambrogio su alcuni dei temi più delicati della vita cittadina. Il denaro, l'egoismo, l'inequità. E l'impressione di un crollo imminente

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Questa è la Milano che ci siamo cercati. Tre riflessioni sulle parole di Delpini
Il monsignor Delpini è un uomo mite. Non ha le asprezze di un Angelo Scola. Vive con un misto di umiltà e ironia pure caustica il suo ruolo, anche quando questo ha imposto provvedimenti vaticani quasi insultanti verso il suo ruolo (ricordiamoci che papa Francesco non lo ha mai ordinato Cardinale, prima volta nella storia di Milano dai tempi di Luigi Nazari di Calabiana, a fine 800).
Delpini ha deciso di entrare a gamba tesa, nel suo discorso alla città, che si è tenuto il 5 dicembre. “L’impressione del crollo imminente di una civiltà, della rovina disastrosa di una città segna non raramente anche la storia di Milano - ha esordito -. Possiamo riconoscere segni preoccupanti e minacce di crollo e possiamo domandarci: veramente il declino della nostra civiltà è un destino segnato? Ci sarà una ripresa di gusto per costruire, una volontà di aggiustare il mondo, un farsi avanti di uomini e donne capaci e desiderosi di sognare, di operare, di contribuire a una vita migliore per la casa comune?”. Ha poi toccato alcuni temi cruciali per la città, dai giovani alla casa, passando per il diritto alla salute e le condizioni dei carcerati.
E infine la conclusione. La più importante, insieme al titolo. “La città diventa appetibile per chi ha molto denaro da investire. Nel mondo in guerra, nel mondo ingiusto, nel mondo del lusso incontrollato le risorse finanziarie del sistema creditizio sono impegnate in modo scriteriato per rendere più drammatica l’inequità che arricchisce i ricchi e deruba i poveri”. Quindi Milano è condannata? No, perché appunto c’è il titolo a dare la giusta prospettiva a tutto: “Ma essa non cadde”.
Quindi, Milano non cade. Ma ci sono tre considerazioni che possono essere fatte sulle parole di Delpini.
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Prima riflessione: questa Milano ce la siamo cercata
Non bisogna essere ipocriti. Abbiamo voluto strenuamente una città europea, aperta al mondo, bellissima. Abbiamo voluto una città moderna - anzi, per dirla con Sala, contemporanea. Abbiamo voluto somigliare alle grandi capitali del mondo. E come sono le capitali del mondo? Sono giuste? Hanno un mercato della casa equilibrato? Sono, in definitiva, molto diverse da Milano? Se la si pensa così è solo perché si è viaggiato poco. Forse che New York a Manhattan abbia problemi differenti a Milano, o Londra, o Berlino, o Tokyo?
Il termine “gentrificazione” l’hanno inventato per noi o per altri centri urbani, decenni fa? La verità è che se una città è attrattiva, per un discorso puramente capitalista, la zona più desiderata cresce di valore. E se cresce di valore viene presa di mira dai fondi, che vedono in quella curva un modo per guadagnare in modo sicuro e senza fluttuazioni di Borsa, visto che il mattone non ha curve strette e repentine. E quando arrivano quel tipo di investimenti le persone meno abbienti vengono scacciate. Brutto, ma è una conseguenza prevedibile. Oggi non possiamo lamentarci di aver voluto che accadesse proprio questo. E diciamo anche un’altra cosa impopolare: c’è un sacco di gente che ci guadagna, da chi fa pagare un primo a 26 euro a pranzo al ristorante, ai negozianti che vendono i vestiti a un minimo di 1000 euro, ai professionisti che vanno tutti in giro in Mercedes e Bmw. Poi ci sono i poveri. Ma questi non hanno voce.
Seconda riflessione: le rendite di posizione
Il tema della casa, che adesso pongono tutti, non è un tema sociale. E’ un tema economico. Che poi diventa sociale, ma in seconda battuta. Un tema irrisolvibile a meno di cambiare la legislazione italiana e fare un regime comunista (non auspicabile, beninteso).
Non si può impedire ai fondi di comprare, non si può impedire ai milanesi che vengono le case dei nonni a peso d’oro di vendere. Si può rilevare, questo sì, che come ho scritto più volte il vero problema sono i rentier, quelli che vivono di rendita proprio grazie all’aumento del patrimonio immobiliare, che contraddicono lo spirito più profondo di Milano: quello del costruire sempre di più le proprie vite, di salire, di ascendere, di sforzarsi, di sognare.
Il problema dei costi delle case all’interno della cerchia della 90-91 non è risolvibile. Bisogna iniziare a metterselo in testa. Altrimenti rimarremo là, gruppo di illusi che si può unire agli altri illusi che pensano che l’evasione fiscale sia debellabile (al massimo, e proprio al massimo, è diminuibile), e che i treni possano arrivare in orario. Che cosa si può fare, però? Si può allargare la città. Andare in quei quartieri ghetto che esistono e che fanno vergogna a Milano, e operare con forza. Costruendo, sì. Costruendo in verticale, sì. Costruendo tanto e non sbagliando: mix sociale, residenze private, convenzionate e popolari tutte insieme, nello stesso palazzo che può e dovrebbe pure essere un grattacielo con sotto un bel parco. Questo dobbiamo sognare.
Terza riflessione: l'egoismo di una generazione (che invecchia)
Sì, la generazione dei quaranta e cinquantenni. Ma ancor di più quella dei genitori, settanta e ottantenni. Basta con i miti che chi viene dopo è scarso e chi viene prima è ottimo. Il punto è che redditi, pensioni, e tutele nostri e dei nostri genitori sono immensamente più ampi di quelle che avranno i nostri figli. I quali avranno sicuramente un patrimonio assai più ampio di quello delle generazioni precedenti, grazie al lavoro che abbiamo fatto. Ma anche uno stato sociale verso la compromissione più completa.
C'è un importante studio della Cattolica, nel quale si dice chiaro e tondo: “La quota di spesa per gli ultraottantenni raddoppierà, mentre calerà per le altre fasce di età”. Insomma: da più parti si dice, ed è chiaro, che la sanità scricchiola proprio sotto il peso del numero crescente di anziani, e del fatto che tutti vogliono essere curati al meglio (il che è anche giusto, ma le generazioni successive se lo potranno permettere?). Ci stiamo preoccupando di questo, noi generazioni “produttive”? Oppure, esattamente come hanno fatto i nostri genitori, siamo moderatamente soddisfatti dall’esserci “messi in salvo”, lasciando a chi arriva dopo il gestire i loro problemi?
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