Con questi dirigenti non vinceranno mai
Di Adriana Santacroce
Mai l'affermazione di un attore, improvvisata una sera di primavera, fu più realistica di quella che Nanni Moretti fece a Roma nel 2002 a piazza Navona. Bersani le aveva già vinte queste elezioni. Al punto da non impegnarsi neanche più di tanto per riformare la legge elettorale, perché i sondaggi e la crisi davano il centrosinistra troppo avanti per poter perdere. Invece no. La batosta è arrivata ed è stata forte. Il Paese è di fatto ingovernabile ma tutto fa pensare che alla direzione prevista di mercoledì non ci sarà alcuna resa dei conti. Senza un programma chiaro che avesse un obbiettivo semplice e mirato, il leader Pd si è perso smacchiando quel "giaguaro" che se, ufficialmente, voleva far sorridere, di fatto nascondeva la debolezza della sua strategia. Se divento premier il primo giorno mi occupo della cittadinanza per i figli degli immigrati, diceva Bersani. Nobile gesto, certo, ma situato in fondo alle necessita di questo Paese, e, certamente, ai desideri degli elettori. C'è una crisi devastante che ci attanaglia, c'è un sistema politico intriso di privilegi.
Ma come ha fatto Bersani a non vederlo? Troppo schiacciato sulla CGIL, il Pd parlava di Europa e di diritti senza vedere che i giovani ormai erano perduti. Da una stima dell'Inkiesta, il 41% degli elettori tra i 18 e 25 anni ha votato Grillo mentre solo il 7% il Pd. E per un partito che tra i suoi dirigenti ha una formazione che si chiama "i giovani" Turchi, che in realtà sono già vecchi, si tratta di un doppio fallimento. Nessuna proposta originale tra le pieghe del burocratese del partito, nessun progetto chiaro sui costi della politica o sul rinnovamento della classe dirigente. La Bindi, candidata alle parlamentare in Calabria per farla vincere, un esempio di presa in giro che nessuno fuori dall'apparato ha capito. Ecco, l'apparato che da Gotor alla Moretti a Fassina, dopo aver fatto di tutto per far perdere Renzi e per tenersi la dirigenza, ha perso la possibilità di governare il Paese. Dal partito a vocazione maggioritaria di Veltroni, che bene o male il suo 33,7% lo aveva ottenuto, siamo arrivati a questo che, al momento, ha di fatto una vocazione minoritaria.
Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto, ha detto Bersani 26 ore dopo i risultati elettorali. Sbagliato segretario, avete perso. E anche malamente. E l'assurdo, radicato nelle viscere di questo partito, è che ancora nessuno lo ammette. Solo Renzi, paradossalmente il vincitore morale di queste drammatiche elezioni, e, comunque, fuori dai giochi, ha detto: abbiamo perso. Per il resto assistiamo a questi bizantinismi dei dirigenti Pd che più parlano più perdono voti. Un partito serio, quando perde, lo ammette e arriva a precise conclusioni. Veltroni nel 2000, dopo la sconfitta in Sardegna, si era dimesso. Lo stesso D'Alema, che ora pontifica di spartizioni con Grillo, mostrando di non aver ancora capito con chi ha a che fare, aveva scelto la stessa strada dopo le elezioni regionali del 2000. Ma Bersani no. Insegue Grillo sul suo programma e vuole parlargli di democrazia e di "come si eleggono gli organismi dirigenti del partito". A parte il fatto che sulle elezioni dei dirigenti Bersani deve ancora spiegare i magheggi inventati alle primarie per frenare Renzi, il segretario dimostra in questo modo di non avere, ancora, capito nulla di quello che è successo. Cosa può importare a Grillo, difensore della democrazia via web, del suo burocratese? Ma non solo. Che credibilità può avere con gli elettori parlare di democrazia dopo averlo sottovalutato e avergli dato del fascista? Per non parlare di altri dirigenti, come Pippo Civati, che parla, improvvisamente, di reddito di cittadinanza (ma come, non era una trovata demagogica?) e di abolizione di generiche infrastrutture inutili. Il riferimento alla Tav, invisa ai grillini, è fin troppo ovvio, caro Civati. Ma allora perché semplicemente non dirlo, invece di rimanere sempre sul vago?
Perché per un dirigente di un partito così importante è difficile parlare chiaro, dire le cose come stanno, ammettere gli errori e fare un passo indietro? Perché quando ascoltiamo i dirigenti, a parte rare eccezioni, traspare sempre e comunque la spocchia, la presunta superiorità morale e culturale di una sinistra che ormai rappresenta poco o niente? Anche ieri, da Fazio, Bersani ha ribadito i punti da cui partire e ha chiuso dicendo: o Grillo ci sta o andiamo a casa. Non dipende sempre dagli altri, caro Bersani, spesso dipende anche da voi, da chi dirige, sceglie e, a volte, sbaglia.
E hanno sbagliato, ancora, anche in Lombardia. L'avvocato Ambrosoli ha perso. Ha peccato in errori di ingenuità che in un novello della politica ci potevano anche stare ma che, nel grande partito che lo sosteneva, sono stati una gravissima mancanza. Non mi soffermo sugli errori fatti in campagna elettorale, sui quali peraltro ho già scritto in tempi non sospetti, ma anche qui sull'atteggiamento che il partito, dopo il risultato, ha tenuto. È stata una sconfitta storica. Col Pirellone pieno di indagati, la Lega e il Pdl ai minimi storici, era l'occasione che il Centrosinistra aspettava da decenni per potere cambiare il volto alla Lombardia. Invece no. Anche qui l'analisi di un partito serio comporterebbe delle scelte nette, dei cambi radicali ai vertici e, soprattutto, un'ammissione di responsabilità. Il segretario cittadino ha twittato che il Pd deve ripartire da Milano, dove il centrosinistra ha vinto su Maroni, e deve cambiare, invece, in Regione, dove il risultato è stato negativo. Peccato che anche qui, di fronte alla domanda: 'allora dimissioni?' la risposta sia sempre la stessa: non ora. Tradotto: no, bisogna far finta che tutto cambi perché tutto resti come prima. Ma se i borboni di Tomasi da Lampedusa almeno avevano da difendere i loro privilegi nobiliari, qui non rimane più nulla. Se non la difesa dell'apparato che, più passa il tempo, più si smonta da solo. Oggi pomeriggio si riunisce la direzione regionale del Pd che qualcuno vuole vedere come la resa dei conti ma che, dal quartier generale, è dipinta come la consueta analisi del voto. Del resto, il giorno dopo la sconfitta il segretario Martina ha detto che avrebbero avuto bisogno alla fine di qualche settimana in più per far conoscere il programma. Dimenticando tutte quelle perse all'inizio, prima alla ricerca del candidato e, poi, in quelle primarie civiche inutili e dispendiose. Bisogna ripartire da capo. Il partito va rinnovato negli organi dirigenti e nei contenuti. Grillo è lì fuori che aspetta di fare il pieno di voti. Vanno cambiate forma e contenuto della comunicazione. Al più presto. Altrimenti con questi dirigenti il partito e i suoi elettori non vinceranno, davvero, mai.