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Politica
“Conte non può più fare il federatore e il Pd non vada al traino del M5s”

La rotta da seguire è il congresso. E’ questa la voce che in maniera insistente si sta levando tra le fila del Partito democratico. A chiederlo con maggiore forza sono i riformisti che proprio ieri hanno tenuto una riunione sul tema. E non sono i soli. Anche se la corrente che fa capo a Lorenzo Guerini e Luca Lotti è tra quelle più rappresentate in Parlamento (con 20 senatori e 31 deputati). Insomma, non si può aspettare il 2023 - dead line tracciata dal segretario Nicola Zingaretti – per ridefinire direzione e prospettiva del partito. Affaritaliani.it ne ha parlato con il senatore dem Dario Stefano, presidente della commissione Politiche Ue di palazzo Madama. Intervistato dal nostro giornale, il parlamentare pugliese ha subito scandito: “Abbiamo la necessità di lavorare sulla nostra identità e sulla strategia del Pd da qui in avanti. E, in politica, la fisionomia di un partito la si definisce discutendo in maniera vera all’interno di un congresso e coinvolgendo i territori. Negare questa necessità credo sia un errore”.

Senatore, cosa vi aspettate a questo punto dall’assemblea nazionale del 13-14 marzo?
Che sia un luogo di discussione vera sulla fase che si è appena aperta e che è totalmente nuova rispetto alle elezioni del 2018 e al congresso del 2019. Ma, attenzione.

A cosa?
E’ chiaro che l’assemblea non può essere alternativa a una fase congressuale. Che, invece, da più parti viene indicata come la rotta per ridefinire e ricalibrare l’identità del partito e la sua prospettiva.

Zingaretti sembra di tutt’altro avviso. La linea è: primarie nel 2023. Non solo, ma il segretario continua a perseguire l’obiettivo di un’alleanza stabile con il M5s, a partire dal laboratorio Lazio. Con Conte che si appresta a “rifondare” il Movimento è ancora possibile?
A maggior ragione c’è la necessità di prendere atto che siamo in una fase nuova.  Se solo pensiamo che la mozione congressuale nel 2019 escludeva categoricamente alleanze con il M5s.

Poi, però, c’è stato il governo Conte due.
Certo, ed io sono stato tra coloro che hanno contribuito personalmente alla definizione del programma di governo, perché convinto che quel passaggio fosse necessario. Rispondeva, infatti, all’urgenza di evitare che l’Italia deragliasse sul binario di un populismo sovranista.

E ora?
Ora la fase è nuova, va discusso dove vogliamo andare e con quali ambizioni. Ecco perché credo sia sbagliato arroccarsi dietro scadenze temporali. La discussione può solo arricchire il partito.

Un cambio di linea è possibile con lo stesso segretario?
La priorità è aprire una stagione nuova. Poi, come ci insegna la storia, i congressi determinano una linea e solo di conseguenza chi può esserne la migliore espressione di leadership. Il congresso non si fa per cambiare segretario, si fa per stabilire una linea. 

Intanto, per il dopo Zingaretti rimbalza il nome di Stefano Bonaccini. Potrebbe essere la persona giusta?
Il Pd ha tante risorse ed energie. Bonaccini è certamente una di queste, ma considero un errore impostare l’intero ragionamento a partire dai nomi. Adesso la necessità è ridarsi un’identità. E ciò può avvenire solo attraverso una discussione congressuale. 

E se il partito puntasse su un sindaco come per esempio il primo cittadino di Firenze Dario Nardella?
Rispondo allo stesso modo. Il Pd può contare su molte personalità, compreso Zingaretti. Ma è un discorso che non ha senso adesso. Dopo che il congresso ci avrà restituito una sintesi, certamente, ci vorrà la migliore espressione per capitanarla. 

Se non si arriverà al congresso, al di là dell’ipotesi di una vostra uscita dalla segreteria, i riformisti in Parlamento solo comunque una cinquantina. Darete battaglia?
Io non sono dell’idea che si compiano azioni per dimostrare di avere i muscoli. Penso invece che si discuta per trovare la soluzione migliore. E siccome quest’esigenza è emersa da più parti ed è stata espressa da autorevoli esponenti del partito, da Gianni Cuperlo a Matteo Orfini, sono fiducioso. Ma, soprattutto, sono convinto che Zingaretti condividerà tale impostazione: superate le amministrative, superato il picco della pandemia, bisogna affrontare questo tornante.

Partendo da quali presupposti?
Il presupposto è costruire una prospettiva nella quale il Pd non va a rimorchio di altri, ma torna a essere riferimento di un campo progressista ampio per affrontare la fase di ripartenza del Paese. Questo è il punto.

Il punto, pare di capire, però, è anche l’addio ad un’alleanza strutturale con il Movimento. E’ così?
La priorità è una discussione che coinvolga anche i territori. E lo dico da pugliese, insieme ai tanti pugliesi che non sono stati coinvolti nella decisione presa, dopo le elezioni regionali, di allargare la squadra di governo al M5s e cioè all’avversario con cui ci siamo scontrati più duramente in campagna elettorale. Una scelta ex post, le assicuro, che non è stata apprezzata dai territori. Sino a pochi giorni prima, infatti, avevano affrontato un impegno in difesa di una esperienza che i pentastellati avevano contrastato duramente nei 5 anni precedenti. Ecco perché un confronto serve se si cambia linea e, nel nostro caso, va avviato da subito, adesso che il governo Draghi chiude un’epoca e ne apre una nuova. Abbiamo la necessità di capire che identità dare al partito e con quali compagni di viaggio affrontare i prossimi appuntamenti. Una cosa è sicura.

Quale?
Il Pd è un partito che non può andare al traino di altri, tanto meno di chi è stato il suo principale contestatore.

Inutile chiederle del ruolo di federatore che avrebbe dovuto assumere Giuseppe Conte?
Nel momento in cui Conte fa la scelta di diventare leader del M5s è chiaro che si autoesclude dalla possibilità di essere federatore. Questione che, tra l’altro, necessitava comunque di essere discussa tutti insieme.

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