Ho ascoltato le recenti interviste del redivivo Di Battista. Ci ho provato a capire il senso delle sue frasi involute. Alla fine ho alzato bandiera bianca, non ci ho capito nulla! Ho registrato solo una marea di parole in libertà, la confusione concettuale che ha in testa su Stato e capitalismo, la sicumera con cui pontifica il reddito di cittadinanza e il decreto dignità (che tutti sanno essere state riforme inutili se non dannose), le sue convinzioni sul complottismo di “certi poteri”, basta non vado oltre. La sua faccia da bambino per bene nasconde, in verità, una sottile arroganza e presunzione di fondo, che è solo il risultato di conoscenze superficiali, la sua capacità di analisi non va oltre le frasi fatte, le sue risposte sono un inno alla retorica ridicola fatta di “supercazzole” per dirla con Forchielli.
Di Battista rappresenta l’idealtipico esponente di un movimento che si è fondato sull’ideologia del vaffaday, che viene gestito da una società privata e che recluta i propri rappresentanti con il click day. Ma che ci aspettavamo? Di Battista non è ne meglio ne peggio di Di Maio, Crimi, Toninelli, Lezzi, Giarrusso, Bugani, Castelli (ve la ricordate? Quella che disse a Padoan “questo lo dice lei” dopo che lui l’aveva rintuzzava per una bestialità colossale che aveva appena detto), solo per citarne alcuni. Uno dei pochi svegli, Pizzarotti, lo cacciarono subito con un pretesto.
I 5 Stelle sono un partito, o un movimento come piace dire a loro, che, terminata la sbornia demolitoria (la scatoletta di tonno e le dirette streaming che fine hanno fatto?), non ha saputo fare un passo oltre scegliendo invece di applicare alle istituzione la facile logica dei tweet, del tutto e subito (con affermazioni cattura like come “abbiamo sconfitto la povertà”). Raccogliere il consenso è un esercizio non proprio impossibile, ma per esercitare il potere servono competenza (studi), visione (ampie vedute planetarie), realismo (tradurre in numeri gli effetti stimati e realizzati di ogni iniziativa), un mix quasi impossibile da trovare fra gli esponenti del grillismo, che pensavano di governare restando vergini e al ritmo di “onestá, onestá”.
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