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Politica
L'Italia non è un Paese per giovani. In politica prevale l'“usato sicuro”
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L’ITALIA NON E’ UN PAESE PER GIOVANI

A cura di Alessandro Amadori

 

Il dibattito sulle candidature per le prossime elezioni amministrative, con riferimento alle grandi città italiane, sta mostrando un fenomeno abbastanza curioso. Fra i nomi che girano, non mancano personaggi che vengono riproposti dopo aver già svolto in passato importanti incarichi pubblici. Stiamo parlando di nomi come Gabriele Albertini, Antonio Bassolino, Guido Bertolaso… Si tratta di personaggi che, come detto, hanno già giocato delle importanti partite, come sindaci delle medesime città per le quali si parla oggi di una loro ricandidatura, o come capi del complesso sistema della Protezione Civile nazionale. Il punto è proprio questo: perché non stanno emergendo nomi veramente nuovi, nomi giovani non solo anagraficamente, ma anche come cursus honorum pregresso?

In sé, il fatto che vengano riproposte persone, che hanno già fatto in qualche modo la storia dei rispettivi ambiti amministrativi, non è né un bene né un male. La qualità di una candidatura non si misura né con l’età anagrafica né con la lunghezza del curriculum già realizzato. O, almeno, non si misura solo con questi parametri. Il fatto però è sintomatico: siamo indubbiamente un Paese che non ha un elevato ricambio generazionale, nelle posizioni apicali. E la pandemia di Covid-19, per certi versi, ha rafforzato questo “conservatorismo anagrafico”, ostacolando l’ingresso di figure veramente nuove nel panorama politico.

“In un articolo su “Avvenire” di dicembre 2019, così scriveva Alessandro Rosina: “Negli ultimi dieci anni il debito pubblico non è diminuito; la spesa sociale continua a essere tra le più squilibrate in Europa a svantaggio dei giovani; le soglie anagrafiche dell’elettorato attivo e passivo continuano a essere tra le più restrittive tra le democrazie occidentali; la presenza delle nuove generazioni nella società e nel mondo del lavoro si è ulteriormente affievolita. Nelle conclusioni del libro "Non è un paese per giovani", pubblicato nel 2009, quelli appena elencati erano posti come i quattro muri da abbattere per aprire alle nuove generazioni la strada verso il futuro. A dieci anni di distanza non solo sono ancora tutti lì, ma nel complesso appaiono più insormontabili. Il libro, scritto a quattro mani insieme a Elisabetta Ambrosi, nasceva come un pamphlet, con un titolo d’effetto per scuotere l’opinione pubblica. Invece negli anni successivi, complice la crisi economica, il titolo è via via diventato uno slogan che ritrae una condizione di fatto. Con il rischio ora di tramutarsi nella profezia che si autoadempie di un Paese condannato a un ineluttabile declino…”

Che sia veramente così? Io credo di no, che non siamo condannati a un ineluttabile declino. Ma la constatazione/provocazione del citato libro del 2009 è ancora oggi molto attuale, come il citato articolo del 2019. Possibile che ci dobbiamo sempre affidare al cosiddetto “usato sicuro”? A questa domanda, non ho una risposta. Ma credo che rifletterci sopra sia utile per cercare di costruire veramente, dopo la pandemia, un’Italia più dinamica. Un’Italia “per giovani”.

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