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Politica
Pd in ansia: Toscana e Campania, quella linea rossa in casa dem...

C’è nervosismo nel Pd. E il motivo per cui a via del Nazareno la tensione si taglia con un coltello è di prospettiva. Una prospettiva che non è di lungo termine. Ha una data e un nome precisi: le Regionali del 20 e 21 settembre. Perché è quello l’appuntamento che scotta e fa traballare le certezze democratiche. Liguria a parte, il mancato accordo con il Movimento cinque stelle nelle altre Regioni al voto, dalle Marche alla Puglia, passando per Toscana e Campania, infatti, non fa dormire sonni tranquilli. Anche perché, almeno compulsando i sondaggi, l’alleanza tramontata potrebbe avere effetti dirompenti soprattutto in casa dem. Dalle parti del M5s, a ben guardare, quasi nessuno si agita: “Il Movimento sui territori si è sempre mostrato più debole - spiega un pentastellato -. Già in passato abbiamo pagato la scelta di non fare alleanze e alle ultime Regionali abbiamo pagato pure il tentativo di farle. Al di là dei risultati, comunque, restiamo convinti che la coerenza alla lunga paghi di più e che debbano essere i portavoce sul territorio a dire l’ultima parola”. Nella maggioranza, è vero, c’è anche Italia viva. E Renzi ha più volte detto che proprio Iv si rivelerà la sorpresa di questa tornata elettorale, in barba ai sondaggi. Ma se così non fosse, comunque, l’ex premier potrà sempre giustificarsi dicendo che Iv è ancora un partito giovane, alle prese solo con la prima prova elettorale.  

Ecco perché, dunque, il conto più salato, a urne chiuse, lo pagherebbe il Pd. E come si ragiona in casa democratica? C’è consapevolezza, almeno come conferma ad Affaritaliani.it un insider, che “se la riviera ligure è un bastione difficile da scalare, al Pd e, in primis, al segretario Zingaretti non rimane che sperare in un esito positivo almeno in Toscana e Campania”. E’ questa la linea rossa del Partito democratico. Se non dell’intero partito, di sicuro del suo segretario. Come non ricordare, per esempio, le dimissioni di Walter Veltroni nel febbraio 2009 dopo la debacle elettorale in Sardegna? O il passo indietro dell’allora premier Massimo D’Alema che, il 26 aprile del 2000, salì al Colle per rassegnare le sue dimissioni, dopo la vittoria del centrodestra alle regionali? Sarà per tale ragione che, forse anche in maniera un po’ scaramantica, Zingaretti, nei giorni scorsi dalla Sicilia, si è prodotto in un training autogeno che suonava così: “Corriamo per essere il primo partito”. Con tanto di stoccata a chi ha provocato la scissione, ma pure con tanto di avvertimento: “Il Pd non è un partito in cui si entra per fare carriera".

Ma le Regionali non sono il solo campanello d’allarme per il Pd. C’è anche il Mes che il partito - compatto - vorrebbe fosse attivato. Fino a ora, però, su questa partita la posizione dem è rimasta in minoranza nel governo. Il Movimento cinque stelle, infatti, tiene il punto su un no secco all’utilizzo di tale strumento e fino ad ora sembra averla spuntata. Sulla stessa linea del M5s, tra l’altro, si posiziona anche il premier Conte. Un bel problema per i piddini. Anzi, ancora una volta un problema in misura maggiore per il segretario dem. Che, non a caso, è il più agguerrito e martella in maniera insistente sul Meccanismo europeo di stabilità. Non che i ministri del Pd, Gualtieri in testa, facciano mistero della loro posizione pro-Fondo salva Stati. Soltanto che si muovono con più cautela. La verità è che sul Mes il Pd gioca una doppia partita: da un lato ci sono i componenti del governo che non hanno alcuna intenzione di mettere in crisi l’esecutivo. Al massimo puntano a un rimpasto e, quindi, ad accrescere il loro peso specifico a Palazzo Chigi. Dall’altro, appunto, c’è il segretario-governatore Zingaretti. Che da presidente della Regione Lazio non può che tifare, come la maggior parte dei governatori, per i 36 miliardi da investire in sanità.

La lista dei tormenti Pd, tuttavia, non si esaurisce qui. Un altro bubbone è rappresentato dalla scuola. Un tema sul quale i dem sono ipersensibili. D’altronde, quello dei prof costituisce un bacino elettorale importante e per nulla trascurabile. Ecco spiegato l’attivismo democratico su questo fronte. Ecco spiegati anche l’incontro, lo scorso 20 luglio, tra Zingaretti e i sindacati di settore e gli appelli dell’inquilino del Nazareno affinché la riapertura delle scuole in sicurezza diventi la priorità del governo. Il numero uno di via del Nazareno si è spinto addirittura a proporre un vero e proprio tavolo scuola 2020-2021, allargato anche ai i ministeri dell'Economia, dei Trasporti, della Salute e alla Conferenza delle Regioni. Insomma, gli esponenti del Pd non vogliono e non possono permettersi di lasciare la gestione di questa partita solo nelle mani del M5s e del ministro Lucia Azzolina. Appunto, l’elettorato guarda e aspetta i dem al varco. Già sul concorso straordinario, il partito, nel braccio di ferro con i Cinque stelle, ne è uscito ammaccato. L’emendamento targato Pd al decreto Scuola, per trasformare la selezione in una graduatoria per titoli, è stato respinto con perdite. Alla fine, infatti, tra i due alleati contendenti, ha prevalso la mediazione di Conte. Un compromesso, appunto. E sempre un mezzo rospo da ingoiare per il Partito democratico.

Sarà per questo che, almeno sull’immigrazione, il Pd vorrebbe poter portare a casa un risultato e non dover ammainare una bandiera bianca. La ragione del pressing sui decreti Sicurezza, sui quali ancora una volta emerge un forte protagonismo di Zingaretti, è tutta qui. E non importa se il partito al suo interno è spaccato - tra la linea Minniti, più rigorista e che ha prevalso durante il governo Gentiloni, e quella di Orfini, che ha sempre tacciato quella strategia come fallimentare -. Tutto questo non conta. O meglio, è superato dal bisogno di mettere a segno un punto. E poter avere, per una volta, la meglio sui Cinque stelle. Certo i dem devono fare i conti con la cronaca. E' vero che la modifica dei decreti Salvini, accogliendo i rilievi del Colle, era nei patti sin dalla formazione del Conte due. Ma gli accadimenti, tra gli sbarchi continui in Sicilia, l'emergenza Covid-19 e, da ultimo, l’sos lanciato nei giorni scorsi dal sindaco di Lampedusa sull’hotpost dell’isola al collasso, non sembrano al momento offrire a Zingaretti un “soccorso rosso”. Ancora una volta, invece, sembrano spianare la strada alla linea più prudente (e per certi versi più vicina a Salvini) del M5s.

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