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Politica
Pd veleni, Matteo Renzi "rottama" il Pci
Foto: LaPresse

In mezzo al voto di tre regioni, a due settimane dal d-day dei “gazebo” delle primarie Pd e a tre mesi dalle Europee Matteo Renzi torna in campo con un suo libro lanciando pietroni sui “falsi amici” e un dardo avvelenato ad uso interno: “Il Pci non ha vinto mai”. Non è questione di lana caprina perché Renzi ripropone con il taglio dell’accetta la sua analisi (sbagliata) della debacle personale e di partito addossando tutte le colpe ai suoi “compagni di viaggio” senza uno straccio di autocritica sul perché la rivoluzione della Leopolda si è dissolta in una bolla di sapone.

Al centro resta il nodo mai sciolto relativo alla nascita del Partito democratico, quell’amalgama mal riuscita fra ex comunisti ed ex diccì, in primis senza risposte al perché e al percome del fallimento del comunismo e del Pci e poi su come poteva reggere una fusione a freddo di ex comunisti mai pentiti (al di là della rimozione delle insegne da Pci, Pds, Ds) con i democristiani ugualmente mai pentiti che avevano avuto nell’anticomunismo comunque declinato la loro ragion d’essere ed erano passati - prima del sodalizio con i “rossi” - nella Margherita, un ginepraio affaristico e di potere.

Quel vulnus che Renzi da segretario-padrone del Pd ha creduto di superare sic et simpliciter con la “rottamazione” dei figli e nipoti di Togliatti e Berlinguer (D’Alema, Bersani&C) è stato la causa principale del fallimento di quel progetto politico privando la sinistra italiana del “partito nuovo” democratico, popolare, riformista, anti fascista e anti comunista. Invece di formare un innovativo asse portante di centrosinistra si è arrivati – dopo prove di governo di basso profilo quando non disastrose - alla sua disgregazione rendendo infine irrilevanti sia la componente di sinistra che quella di centro. Certo, Renzi ha bruciato le sue chance: non ha (più) la credibilità politica per pontificare, tutt’ora incapace di comprendere e motivare le ragioni delle sue sconfitte dopo aver fallito la “prova del budino” come premier (inesistente linea di sviluppo del Paese, espressione del Palazzo e delle èlite nazionali e internazionali, apertura di fatto alla via del potere per M5S e Lega ecc.) e come leader di partito.

Matteo ha fatto una rivoluzione in un bicchier d’acqua: ha tolto il Pd dai suoi antichi ormeggi senza però indicare la nuova sponda, rimanendo così in mezzo al guado, senza bussola, alla mercè degli eventi, consumandosi in una infinita guerra intestina. Ora le “anime belle” di quella che fu l’armata dei comunisti italiani della mai definita e tanto meno percorsa “terza via” gridano allo scandalo bollando Renzi di eresia per la sua frase: “Il Pci non ha vinto mai”. In effetti, il partito di Togliatti e di Berlinguer ha vinto tappe (a volte anche il “tappone”) ma mai il Giro”, ha vinto partite anche importanti (comuni, province, regioni) ma mai il campionato. Ciò perché, come noto, gli mancavano voti decisivi e alleanze politiche e sociali e perché vittima di una “conventio ad excludendum” nazionale ed internazionale che per oltre mezzo secolo lo ha tagliato fuori dal governo del Paese.

Quella agognata società socialista basata sulla fede di una ideologia rilevatasi ovunque disastrosa ed esiziale non si è mai realizzata in Italia ed è stato un bene per tutti, comunisti compresi. Così come i comunisti rimasti tali anche nel Pd, pur avendo cancellato nome e marchio della “ditta”, non hanno mai analizzato la debacle e la fine del loro partito di provenienza e tanto meno hanno ripudiato le loro radici ideologiche e politiche, altrettanto ha fatto Renzi dopo il ko del 4 marzo 2018 (la sinistra è tornata ai livelli del 1924 Legge Acerbo): nessuna autocritica, solo rabbia contro gli elettori che non avrebbero compreso quanto di buono c’era nel Pd e nei suoi governi, solo fango e improperi contro i nuovi vincitori, i “barbari” di M5S e Lega, in primis contro il “fascista” e “razzista” malefico Salvini. Colpa del destino cinico e baro. Dal 4 marzo ad oggi, un anno gettato al vento per l’infinita campagna congressuale, nel Pd la musica non è cambiata,con una analisi politica inconsistente e un atteggiamento auto assolutorio ai vertici, partito inevitabilmente destinato all’agonia elettorale e all’irrilevanza politica.

L’esultanza posticcia dopo i risultati elettorali in Abruzzo per aver perduto il match non per ko ma per lancio pietoso della spugna dall’angolo del ring dimostra come, per illudersi di non affondare, ci si puòaggrappare ai desideri. Quel tipo di schieramento (le liste civiche non sono sommabili ai partiti nazionali) non è più maggioranza in nessuna regione e si scioglierà come neve al sole di primavera. Fatto sta che, così, la sconfitta è certa, come il ko alle urne di maggio dove si vota con il proporzionale puro e dove, peraltro, anche un listone-minestrone anti sovranista da Calenda a Bersani&C sarà l’ennesimo flop. Come Renzi, anche i suoi detrattori e la nuova leadership del Pd che uscirà dopo il 3 marzo, s’avvitano sul nulla, sparando a vuoto.

Ora l’interrogativo (con nuove lacerazioni) fra renziani e anti renziani è se aprire o no ai Di Battista, ai Fico, insomma al M5S in effervescenza e in discesa, pur di incunearsi fra i vincitori del 4 marzo 2018 e rompere l’asse della maggioranza che oggi regge il governo. Illusione: chi non vota più 5 stelle non imbuca il viottolo del Pd ma si butta nel mare magnum dell’astensionismo o, verosimilmente, gonfia il trionfo annunciato della Lega di Salvini. Non c’è trippa per gatti.

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