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Politica
Referendum Lombardia-Veneto, ora lo Stato deve svegliarsi
SCHIAFFO 1 - Roberto Maroni, presidente della Regione Lombardia. Nemmeno la crisi della Catalogna riesce a far entrare nel cuore dei lombardi la passione per il referendum del 22 ottobre. Sarà un costoso flop o è soltanto una mia sensazione?

Fra qualche giorno, precisamente il 22 prossimo, i cittadini residenti nei comuni di Lombardia e Veneto saranno chiamati a pronunciarsi – in seno ad una consultazione referendaria voluta dalla Lega e condivisa da altri partiti del centrodestra – sulla procedibilità, da parte delle amministrazioni delle stesse Regioni, dell’adozione di tutte le iniziative istituzionali necessarie onde richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi del disposto del comma terzo dell’art. 116 della Carta Costituzionale.

Molti, pur autorevoli, studiosi hanno affermato l’inutilità di tale referendum a cagione del sostenuto carattere asseverativo di una facoltà già posta nella titolarità delle amministrazioni regionali medesime proprio in ossequio alla disposizione costituzionale testé menzionata. Invero è da ritenersi che l’iniziativa di Roberto Maroni e Luca Zaia abbia una valenza politica assai rilevante in quanto, con tutta probabilità, essa inaugura una stagione di diuturno confronto tra eletti ed elettori, protesa alla verifica della sussistenza di un continuo vincolo fiduciario.

Ad avviso dello scrivente, chi militi per l’argomentazione dell’inutilità finisce inevitabilmente per aderire all’erronea tesi in virtù della quale i rappresentanti istituzionali, allorché investiti del munus publicum, possono determinarsi in modo latamente discrezionale senza minimamente interfacciarsi col corpus elettorale; il che pure sarebbe, stricto iure, formalmente ineccepibile ma renderebbe sostanzialmente ancor più profondo il solco (inaccettabile da un punto di vista politico e fin troppo largo) tra i consociati appartenenti ai diversi livelli dell’ordinamento giuridico.

Altre critiche hanno riguardato la mancata predisposizione di un quesito più articolato e, segnatamente, calibrato sui programmi autonomisti in via di futura attuazione ad opera delle Regioni in questione. Ciò, però, avrebbe rischiato di far allontanare dalle urne gli elettori, in simile ipotesi vocati a interloquire su questioni tecniche sfuggenti alla propria competenza (ancorché meramente superficiale).

Nel merito, poi, la spinta verso un più ampio margine di autonomia dei territori, se prodromica all’efficientamento dello Stato, non dispiace affatto. Un cenno conclusivo sui costi. È incontestabile che qualsivoglia votazione implichi oneri economici ma è altrettanto pacifico che la buona e sana democrazia sottenda il compimento di spese essenziali al suo funzionamento.

*avvocato e docente universitario

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