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Politica
Renzi, dal flop referendum al ko tecnico nel Pd?

Di Massimo Falcioni

Non può non avere conseguenze politiche l’intervento di Renzi nella direzione del Pd dopo il flop elettorale del quattro dicembre. Nessuna analisi sul risultato elettorale ma una celebrazione agiografica dei 1000 giorni del suo governo. Come dire: stavamo andando a tutta velocità sulla via delle riforme salvando il Paese ed ecco il bastone messo fra le ruote dai soliti “noti”, incolpando per primi i nemici interni con la minaccia di andar presto alla resa dei conti. Un discorso, al netto del tono e delle battute, che va al di là della ricostruzione di quanto fatto dal suo governo per puntare più in alto: alla rivendicazione di una linea politica assurta a ideologia vincente e giusta per ieri, per oggi e per domani.

Qui, di fronte alla sconfitta, c’è la riproposizione del principio togliattiano: “la linea è giusta, è sbagliata la gestione” prefigurando la ricerca di capri espiatori, la caccia alle streghe, le purghe. Purtroppo per Renzi e per il Pd, ma purtroppo soprattutto per gli italiani, la realtà descritta dal segretario-ex premier non è quanto è avvenuto in Italia in questi ultimi tre anni. C’è stato invece un riformismo sconfinato nel trasformismo e c’è stato sì l’ingresso di Renzi a Palazzo Chigi senza però distinguere la questione del potere dallo sviluppo reale del Paese, rimasto in mezzo al pantano.

Quel che di buono si è realizzato in questi lunghi mesi di crisi non lo si deve certo al palazzo, alla politica e al Partito democratico, tutti responsabili – a seconda del livello di potere – dei limiti, degli errori, delle storture, delle deviazioni anche morali che ostacolano la via della ripresa. Non solo. La double face di Matteo si è rivelata con un discorso sobrio e rispettabile fatto ancora ad urne aperte annunciando le dimissioni, poi ritratto con il comizio in direzione evidenziando - al di là dell’apparenza del giovanotto scanzonato pieno d’allegria e di battute - un incancrenito ed arrogante settarismo. Così Renzi ha riproposto un “suo” Pd, da partito a vocazione maggioritaria a partito con una vocazione alla catechesi dove il verbo è uno solo, quello del capo.

La rottamazione di Renzi, con tagli di testa politicamente rilevanti, di fatto ex Pci che potevano fare ombra al nuovo giovane gruppo dirigente, ha altresì prodotto uno strappo rispetto alla storia, alla cultura, alla concezione politico-organizzativa della sinistra tradizionale (in primis quella comunista) senza però fare del Pd il fulcro di un nuovo schieramento progressista nazionale, il volano di un inedito movimento democratico-riformista capace di scrostare la ruggine del passato indicando la nuova meta e i mezzi e i tempi necessari per raggiungerla apertamente con ai remi milioni di italiani e non nel chiuso del palazzo, con i Verdini, Alfano&C. In tal modo, Renzi non solo ha fatto gran danno a se stesso e alla sua leadership ma ha inferto un duro colpo alla credibilità del Pd quale soggetto politico portante di un nuovo assetto delle forze riformiste italiane e d europee.

Così, senza analisi politica sulla sconfitta del SI, Renzi rilancia impostando la rivincita basandosi sul “suo” 40% del referendum o sul 40% delle Europee. E’ come costruire sull’acqua. Il Pd è al governo grazie al “premio-truffa” delle elezioni dell’era Bersani e ai successivi giochi parlamentari nonché allo sfascio del centrodestra e alla perdurante “conventio ad excludendum” di tutti i partiti nei confronti del M5S. Renzi commette un errore politico accusando gli italiani di avere votato NO perchè dediti allo status quo.

Gli italiani vogliono il nuovo che però cambi davvero e in una certa direzione: istituzioni più efficienti, una società più equa, una forte moralità pubblica, una classe politica preparata, pulita e selezionata democraticamente. Quel NO del 4 dicembre, pur formato da un arcipelago di partiti-accozzaglia, è stato l’alt a Renzi, al suo governo, al renzismo, un NO a un sistema di potere senza progetto, senza programma e senza bussola. Renzi ha fatto bene a dare uno strappo al passato rompendo l’asse della continuità tanto cara al Pci ma non è stato capace di costruire nel Paese le necessarie alleanze sociali politiche e culturali limitandosi ai giochi di palazzo nel peggiore continuum della doppiezza e del trasformismo assommando le parti peggiori della Dc, del Pci, del Psi. Così il nuovo è scaduto nel nuovismo. Premier e governo non si sono fatti carico dei bisogni, delle aspirazioni, delle paure degli italiani. E il Pd, ridotto a strumento elettorale in una guerra permanente fra faide, invece di vivere con la gente e per la gente, ha chiuso bottega, con i reduci a guardia del governo, diventato sempre più un guscio vuoto.

La lezione del 4 dicembre non pare sia stata compresa da Renzi ma neppure dalla sinistra. In queste ore si rischia di assistere a un rito di palazzo, con gli italiani ancor più lontani, più delusi, più disorientati. L’iter istituzionale della crisi di governo va rispettato e con Mattarella al Colle gli italiani sono garantiti sul piano democratico. Ciò è fondamentale ma non basta perché servono un governo e un parlamento credibili e riconosciuti come tali e in grado di “fare”. Non servono replay e tanto meno minestre riscaldate. Tocca al primo partito, al Pd, farsi carico di questa fase per formare il nuovo governo di transizione, fino al voto forse in primavera, con il nuovo sistema elettorale. E tocca a Renzi abbandonare risentimenti e propositi di vendetta favorendo la formazione del nuovo esecutivo a firma Pd con un nuovo premier. Non si può, dopo la sconfitta sul campo, minacciare di scappar via con la palla. Prima o poi si andrà alle urne e allora, senza segnali di svolta, sarà davvero una resa dei conti.   

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