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Politica

Di Massimo Falcioni

Nessuno in Italia, a parte i capi e capetti del Pd e i rispettivi fan, trattiene il fiato per le telefonate che Matteo Renzi sta facendo ai suoi avversari interni per evitare, in zona Cesarini, la scissione. Sono anni che nel Partito democratico c’è uno scontro di tutti contro tutti, sul “nulla”, senza esclusioni di colpi, e non è pensabile che una diatriba così devastante anche sul piano dei rapporti personali possa essere risolta con un tweet a poche ore dall’Assemblea nazionale in cui Renzi detta la sua legge per congresso, primarie, legge elettorale, elezioni. Sono tentativi tardivi, dovuti, teatrali, anche strumentali per dividere il campo avversario e per cercare di passare il cerino acceso nel tentativo di rimpallarsi la responsabilità di una scissione che nessuno vuole pubblicamente ma che in privato tutti auspicano. Siamo al solito gioco delle tre carte. Renzi rischia di perdere, oltre la faccia, un pezzo di partito protagonista di una storia da cui è sfociato questo Pd senza capo né coda.

Bersani, D’Alema&C, non avendo più nulla da perdere, giocano allo sfascio, illudendosi di far sventolare di nuovo le bandiere sotterrate dalla storia. Dalla guerra fra giganti di quando le scissioni – specialità della sinistra italiana - avvenivano su grandi opzioni politiche alla guerra odierna fra “nani” quando si manda tutto a carte quarantotto per uno strapuntino. Così il Pd è ridotto un verminaio: sono i cacicchi a dettar legge, a tessere la tela di un inquietante rapporto fra politica e affari, inquinando quel poco o tanto che ancora nel Belpaese sapeva di buono e di pulito.

Ha un bel dire Pisapia che la rottura del Pd “sarebbe una sciagura”. Per tutti gli altri –  sia di maggioranza che di minoranza – è solo una “liberazione” essendo impossibile la convivenza sotto lo stesso tetto fra “fratelli coltelli” il cui obiettivo principale è l’annientamento politico dell’altro che sta nella corrente nemica. La rottura – paradossalmente - dà ai vincitori e ai vinti più chances, specie con una legge elettorale proporzionale dove vince e governa chi c’è, si distingue, si allea: più visibilità mediatica, più potere contrattuale nei futuri giochi delle alleanze e soprattutto mette a disposizione di ognuno più poltrone parlamentari. Al fondo di tutto, oltre l’orgoglio e qualche reminiscenza ideologica, in ballo c’è  quindi una questione di potere, la formazione delle liste elettorali, i posti sicuri, l’accaparramento delle poltrone. Con le minoranze out, Renzi può disporre in toto di un “suo” partito, senza più freni e condizionamenti, distribuendo solo fra i suoi tutto il potere derivante dalle elezioni. Al contempo, anche le minoranze traggono vantaggio dalla scissione ben sapendo che fuori dal Pd c’è solo la possibilità di formare un partitino di scarso peso politico, con poche poltrone da spartirsi ma comunque sempre di più di quelle oggi offerte loro da Renzi nel Pd, pari a zero. Il Pd è oggi partito di governo quindi una sua implosione può destabilizzare il quadro politico con ripercussioni per il Paese.

Ma non è proprio quello che Renzi vuole, per una sua legittimazione democratica, seprando nel  plebiscito, puntando alle elezioni prima possibile? E non è quello che anche le minoranze vogliono – al di là delle dichiarazioni – per pesarsi e mettere quel (poco) peso sulla bilancia pensando di essere determinanti in una futura coalizione di governo, di fatto tornando alleati di quel Pd da cui fuggono sbattendo la porta? Agli italiani poco importa di questa incomprensibile e interminabile diatriba di palazzo. Percepiscono quel che nei fatti emerge: la resa dei conti nel Pd ha poco a che fare con i contenuti politici ma riguarda la rivincita di Renzi dopo il ko del referendum subito per gli errori dell’allora segretario-premier ma anche per responsabilità delle minoranze interne e riguarda gli ex Pci proprietari della Ditta decisi a spazzar via il “rottamatore”, responsabile della svolta neo centrista, un usurpatore che usa il partito a proprio uso e consumo. In una situazione grave quanto poco seria la scissione è nei fatti, non più ricomponibile né sul piano politico né su quello personale. Siamo al tragicomico della Giara pirandelliana dove alla “roba” di Don Lolò qui si sostituisce il potere di chi non ne vuol sapere di mollarlo. Scissione, una iattura, quindi? Ma per chi? Non per gli italiani, spettatori di un gioco che non li vede protagonisti e quindi non li appassiona. E non per il Paese, da troppo tempo fermo, costretto a tifare “pro” e “contro” un partito mai nato, sempre in mezzo al guado.

Il dato politico è che questo Partito democratico non è stato fin qui in grado di dare una risposta valida alla crisi del Paese e non può non chiedersi perché rimettendo in discussione la sua linea e la sua leadership. In caso contrario, chiudendosi a difesa delle proprie casematte, gli elettori chiederanno presto il conto, con il rischio di ampliare l’astensionismo e di rafforzare il populismo di chi punta al “tanto peggio tanto meglio”. Fin qui Renzi si è chiuso a riccio, senza considerare legittime le critiche, proseguendo anzi sulla vecchia strada illudendosi di poter reiterare per molto tempo ancora una narrazione dell’Italia che non ha convinto e non convince gli italiani. I suoi avversari hanno dato il peggio aspettando il cadavere del Rottamatore lungo il fiume e picconando le fondamenta della loro stessa casa per imboccare infine un tunnel senza uscita. Adesso, che il Pd è tutto suo, per Renzi comincia la lunga marcia. Nel giardino fiorito o nel deserto?  

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