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Echi salentini, 1952/1960 il narrastorie - 2^ puntata

Provo ora a dedicare veloci note aggiuntive, tra il serio e il faceto, su determinati professori.

Luigi Paolo M., faceva su e giù, dalla sua residenza a Maglie, alla guida di un'autovettura Fiat 600. Come insegnante, non godeva di eccelsa fama, nondimeno era buono, gioviale e tollerante; di tanto in tanto, aduso a intercalare alla lingua italiana accezioni o frasi dialettali.

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Il primo compito che ci assegnò in seconda classe, materia, la computisteria, verteva sulla cosiddetta regola “catenaria”. Alle 8, ora di inizio delle lezioni, si era limitato a dettare la traccia dell'esercizio, recandosi, quindi, in un'altra classe in cui aveva lezione e lasciando a vigilare su di noi il collega di una differente disciplina.

Ritornato alle 9, compì una rapida ricognizione fra i banchi e si accorse che nessuno aveva iniziato a svolgere il compito, forse perché le sue spiegazioni non erano state sufficientemente chiare alla scolaresca. Al che, si avvicinò a una parete dell'aula e proruppe in un “povero me, non hanno capito niente!”, e, a seguire, ritirò tutti i fogli e annullò la prova. Qualche tempo dopo, si ripetette un caso similare.

Io pur cercando di studiare e approfondire per conto mio quella materia, a una verifica pre- si, come voto, 4, l'unico in tutta la mia carriera scolastica. Rimasi, di conseguenza, avvilito, per alcuni giorni “odiai” il professor M., un mattino, incrociandolo casualmente per strada, arrivai addirittura a rinfacciargli ostentatamente, con la mano destra aperta su quattro dita, il brutto voto (per quel gesto, il giorno successivo, il docente mi rimbrottò severamente davanti a tutti i compagni).

Negli anni seguenti, mi venne l'idea di aiutarmi con un altro libro, in aggiunta a quello di testo e, in tal modo, riuscii a trovarmi meglio con il docente in questione; quasi quasi, senza che me ne avvedessi, intervenne una sorta di miracolo. A comprova, eravamo in quarta, un giorno fui chiamato alla cattedra per un'interrogazione.

Parlami del conto lavorazione nelle imprese industriali “, mi invitò il professore. All'inizio un po' timidamente, io provai ad argomentare e di lì a poco, inaspettatamente, notai che il docente, il capo quasi appoggiato sul piano della cattedra, se ne stava rivolto verso di me con lo sguardo fisso, con la bocca semiaperta e mi osservava concentrato e immobile.

Mentre io seguitavo a esporre le nozioni che avevo assimilato, a un certo momento, il prof. M. si girò di scatto verso i compagni che seguivano la mia verifica dai banchi, ingiungendo loro: “State attenti, che parla il professore!”.

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Furono risate, come di fronte a una comica. Sia come sia, ottenni un buon voto. Dicevo sopra che, in certi frangenti, il prof. M. indulgeva ad atteggiamenti o a discorsi “alla buona”. Ad esempio, una volta, rivolto a Eugenio Agnello che stava chiacchierando in classe con un compagno, se ne usci con:” Agnello, la vuoi finire o no? Vedi che se non la smetti, ti appendo”.

Naturalmente, pure in questa occasione, ilarità generale, avendo, il prof., configurato l'immagine di un pacifico ovino macellato, appeso a un gancio e pendente sull'uscio di un negozio di carni.

In un'altra circostanza, chiamando in causa il compagno Antonio Di Noia: “Noia (n.d.a., cognome in sintesi, al posto di Di Noia), perché ridi?”. Risposta del ragazzo: “Professore, è Agnello che mi fa ridere”. Replica conclusiva: “E tu. non ti fare ridere”.

In quarta classe, il sabato, avevamo lezione, con il prof. M., dalle 12 alle 13. Or bene, con l'intraprendenza da ragazzi ormai grandicelli, pensammo di prendere la licenza, approfittando dell'intervallo per il cambio di insegnante a mezzogiorno, di svignarcela, prima che il docente M. giungesse da noi. Era brevissimo il percorso fra la nostra aula e il portone l'uscita della scuola, anche se si doveva passare davanti alla porta della presidenza.

Partendo da quell'idea, ponemmo ripetutamente in atto l'alleggerimento dell'orario didattico del sabato, anche se capitava di sentire dal prof. M., in arrivo, “dove andate?” e dal preside “siete impazziti, che fate, rientrate in classe”. Tutto inutile, la fiumana della quarta “B” era ormai, in maggioranza, per strada.

In fondo, il nostro pensiero autoassolutorio era che rendevamo un favore all'insegnante, consentendogli di ritornare nella sua residenza, in anticipo rispetto al previsto.

Saltando dagli anni Cinquanta del secolo scorso al 2000 circa, ho avuto modo di contattare e rivedere a Lecce il professor Luigi Paolo M., il quale si è ricordato subito del suo allievo, Boccadamo da Marittima (“eri uno bravo, vero?”, mi ha chiesto al telefono).

Su suo invito ci siamo incontrati al Bar Manhattan, consumando un’aranciata amara in due e, infine, mi ha brevemente accolto nella sua abitazione nelle vicinanze. Non molto tempo fa, ho saputo che il professor M. se n'è andato, ultranovantenne.

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La professoressa di matematica, Laura O., era molto brava e preparata, come persona, secondo il mio giudizio di adolescente, lasciava, invece, un po' a desiderare, andava per simpatia e io, nonostante me la cavassi bene anche nella sua disciplina, non rientravo nel novero degli allievi prediletti.

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Giovane, nubile, portava spessissime lenti. Quando dovevamo svolgere compiti in classe, la sua prima azione era di farmi lasciare il banco dove ero seduto abitualmente insieme a un compagno e di invitarmi a sedere, a solo, in un banchetto accanto alla cattedra.

Quindi, dettava due tracce: una, per gli allievi che si trovavano nella parte destra di ciascuna fila di banchi e l'altra, per i restanti che avevano posto nella parte sinistra. Io, anche se l’insegnante mi diceva di svolgere una ben determinata prova, mi annotavo tutte e due le tracce, le valutavo e svolgevo quella che mi sembrava più facile.

Il trucchetto funzionava quasi sempre. Solamente in un caso, si scoprirono gli altarini, allorquando la prova “tosta”, che sarebbe toccata anche a me, non fu svolta da alcuno della scolaresca: la docente trasse spunto da ciò, per fare mente locale, dopo di che mi rinfacciò, rimproverandomi, il giochetto posto in atto e annullò la prova.

In quarta, studiavamo la matematica finanziaria e attuariale, un vero e proprio calvario di formule da imparare e tenere a memoria. Riflettendo sulla limitazione visiva della O., escogitai di copiare, con una matita o lapis, sul nero della lavagna, ovviamente in ore vuote o favorevoli, la maggior parte delle formule in questione, che la prof., anche mentre spiegava avvicinandosi alla lavagna, non riusciva a notare. Al contrario, noi allievi, quando eravamo interrogati, alla richiesta di riferire la formula A o B dicevamo: “Prof., posso scriverla alla lavagna?”. Così, spesso riuscivamo ad aiutarci. La trovata funzionò per lungo tempo.

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Il professore di italiano Paolo C. (seconda e terza classe) era un docente eccezionale, di poche parole, ma di profondissima cultura e vasta esperienza. Durante le spiegazioni, lo seguivamo in assoluto, quasi religioso silenzio e con molta attenzione. Severo ma anche giusto, disponibile nelle interrogazioni e nelle verifiche in genere.

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In quarta e in quinta, arrivò, al suo posto, il professor Salvatore E., il quale, inizialmente, sembrò soffrire un po' per la difficile successione; la stessa scolaresca, ovviamente, accuso la differenza e, tuttavia, non tardò a adattarsi e a integrarsi col nuovo docente, peraltro persona dal tratto ottimo e alla mano.

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L'avvocato Luigi F., di ottima e nobile famiglia, docente di diritto ed economia in quinta classe, era una pasta d'uomo, un signore; ci lasciava un po' fare e noi, purtroppo, lo ripagavamo con qualche intemperanza.

Per citare, mentre lui parlava, accendevamo in classe una radiolina e, quando la stessa emetteva i classici fischi che precedono l'inizio di un programma, non poteva non accorgersi del suono, che noi sostenevamo, impunemente, dovesse attribuirsi al cinguettio degli uccellini sugli alberi d'arancio del giardino confinante con la scuola.

Ancora, da poco avevo scelto di andare a sedermi all'ultimo banco accanto a Giorgio Monteduro, detto “palo” perché di altezza prossima ai due metri, a un certo punto proposi, ai vicini di banco, l'idea di vivacizzare le lezioni del professor F.

Approfittando dell'esistenza di una stufa per riscaldamento che, abitualmente, si trovava in fondo all'aula, proposi di cucinare qualcosa, appunto, durante l'ora del professore F., ad esempio due uova. Dalle parole ai fatti: chi portò una padellina, chi olio e sale, chi, secondo ricetta, un paio di uova fresche.

Mentre il professore spiegava, la stufa fu inclinata con l’ampio piatto in posizione orizzontale, la padellina con l'olio posata sulla fiamma; al cadere sull’olio bollente, le uova emisero il classico sfrigolio, il professore sentì lo strano “rumore”, agitandosi e chiedendo di colpo “che cosa stesse succedendo laggiù”. Gli improvvidi cucinieri provarono rapidamente a smontare e disattivare l'apparato, ma, ovviamente, l'avvocato F. si accorse di tutto, senza però farne una tragedia.

Diversamente, il mattino seguente, prima dell’inizio delle lezioni, sulla Quinta “B”, si abbattette la violenta ramanzina del bidello Nino, il quale, imprecando all'indirizzo dell'intera scolaresca per la malefatta, si lamentò, specialmente, di aver dovuto lavorare a lungo per ripulire il pavimento dai residui dell’olio e delle uova rimaste non cotte.

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Dopo il triennio di docenza del professor Luigi Paolo M., in quinta, per ragioneria e tecnica, ci arrivò il professore Italo G., giovane, piccolo di statura, capelli color biondo rossiccio, occhi verdi, accompagnato da nomea di ottimo insegnante, ma, nello stesso tempo, in barba all’età, di persona austera, molto esigente e severa. Dire che, noi del corso “B”, quanto a bagaglio di preparazione pregressa, non eravamo messi propriamente bene.

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Iniziò l'esperienza con il professor G., i fatti confermarono subito la presentazione iniziale, in occasione delle verifiche, come voto, si affacciavano anche alcuni due o tre; così, un giorno, era toccato al compagno Vito Alfarano, il quale, rimasto ovviamente male per l’esito della prova, se ne ritornò al banco, seminando, vocalmente, sequenze di imprecazioni e di minacce indirizzate al prof. G.

Improvvisamente, si presentò una scena originale e quasi patetica, il docente, eretto sulla pedana della cattedra, con le braccia aperte a configurare una sorta di Santa Croce, ad esclamare: “Non ho paura delle minacce, anzi sono pronto al sacrificio”.

Intorno a Natale 1959, si sparse la voce che il prof. G. sarebbe stato il componente interno nella commissione degli esami di maturità. A tale notizia, noi tutti restammo sconcertati e commentavamo “se sarà nominato lui, anziché aiutarci, con la sua severità ci danneggerà se non, addirittura, rovinerà”.

In quel periodo, io, nel pomeriggio, studiavo insieme con Franco Pirelli e Franco De Donatis, nell'abitazione presa in affitto a Maglie, per tutto il periodo dell'anno scolastico, dai genitori del secondo compagno di cui sopra. Di fronte alla prospettiva G. agli esami di Stato, l'anzidetto terzetto di interessati, pensò a un'iniziativa: scrivere al professore una lettera in bianco, consigliandogli di non accettare, per il suo bene, l'incarico di membro interno.

Detto fatto, la missiva fu vergata, con uso, non solamente della penna ma pure di guanti per non lasciare tracce sul foglio e sulla busta, e spedita. Dopo un paio di giorni, mentre stavamo svolgendo in classe un compito proprio col professor G., bussò alla porta dell'aula il bidello Nino: “Dottore, c'è una lettera per lei”.

Il destinatario, stupito, prese in mano il plico e, pur seguitando a sorvegliare, al solito, fra i banchi, onde controllare che qualcuno non copiasse dai compagni, lo dischiuse e diede velocemente una scorsa al contenuto. “Molto bene!”, fu la sua ostentata osservazione. Intanto, io i coautori dell'operazione, ce ne stavamo a capo chino sul banco.

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Nei giorni successivi, tuttavia, ritornammo arditi, domandando, al docente, se fossero vere le voci sull'argomento. Ma lui replicò con forza: “Non è niente vero, sono notizie destituite di ogni fondamento”. E continuando: “Poi, voi stessi, forse, non mi vorreste come membro interno” e, puntando il dito e lo sguardo verso di me:” Proprio lei, probabilmente, non mi vorrebbe”.

Era duro mantenere la compostezza e far finta di niente. Di fatto, il prof. G. fu designato come commissario interno alle prove di maturità. Nell'ultimo giorno di lezioni, io trascorsi la mattinata in segreteria, per copiarmi in chiaro i programmi di tutte le materie.

Dopo qualche ora, nel cortile della scuola, incrociai il prof. G., con molti registri di classe sottobraccio, che mi chiese dove fossi stato invece di essere presente in classe, aggiungendo quindi: “Si è persa un'occasione importante e irripetibile, nonostante le difficoltà e i contrasti relazionali nel corso dell'anno, oggi, nella Quinta “B”, c'è stata un'assemblea immemorabile, commossa, abbiamo tutti pianto per il commiato”.

E, dopo, mi invitò a seguirlo in un'aula, per dettargli le assenze degli alunni da riportarsi nella pagina degli scrutini di fine anno. In realtà, in mia presenza, a dimostrazione inaspettata della fiducia che riponeva in me, egli fece gli scrutini: di promozione o meno per le classi intermedie e ai fini dell'ammissione o meno agli esami di Stato, per la mia classe Quinta “B”.

Giunto al mio nome, disse: “La ammetto con sette e sette (in ragioneria e in tecnica), ma guai a lei se, agli esami, non riporterà un voto migliore”. Giunsero le prove conclusive, scritte e orali; in occasione delle seconde, mi toccò un'interrogazione di circa un'ora, fortunatamente risposi a tutti, notando, man mano, come sul volto del mio insegnante andassero vieppiù a stamparsi le impronte di una grande soddisfazione.

Dopo una decina di giorni, fui informato che erano usciti i “quadri”, lo dissi immediatamente a mio padre e, con un’autovettura presa a noleggio, ci recammo insieme a Maglie. All'ingresso dell'Istituto, prima ancora di avvicinarci ai fogli con i risultati degli esami, incontrammo il segretario Mimì Mele, il quale, con un sorriso, mi fece: “Hai preso voti tutti tondi, complimenti”, volendo dire otto e nove.

Così lessi, in effetti, sui “quadri”; in particolare, nelle materie ragioneria e tecnica del Prof. G., avevo riportato un bellissimo nove. I miei, erano i migliori voti di tutto l'Istituto e, come seppi dopo, si collocavano ai più alti livelli pure su scala provinciale. Come avvenuto con riferimento al prof. Luigi Paolo M., intorno al 2000, ho chiesto e ottenuto di rivedere anche il professor Italo G.

Commovente il clima dell'accoglienza, contraddistinto da un particolare;  quando gli ricordai che agli esami di maturità mi aveva messo nove  in entrambe le sue materie, il docente rimase allibito e chiamò immediatamente la moglie, già sua allieva, dicendole: Senti, questo signore mi sta rammentando che, agli esami di Stato, gli ho dato 9 nelle mie due materie” e la consorte: ”Sembra proprio impossibile, già che, quando tu assegnavi un sei  o un sei e mezzo, si era proprio al massimo”.

(2/3 continua)

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Pubblicato in precedenza: Echi salentini, 1952/1960 il narrastorie

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