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Attraverso il compimento di un piccolo gesto d’altri tempi cui sono tuttora affezionato, far scorrere sotto i polpastrelli i foglietti sottili del calendario a blocchetto, si sono affacciate allo sguardo le cinque lettere del mese che sta per sopraggiungere: marzo.

Un arrivo che, a livello del personale sentire profondo, ho sempre avvertito come segnale di preavviso della stagione dolce, con ciò sottolineando che tale rimane, secondo me, l’aggettivo proprio della primavera, giustappunto dolce, sebbene oggi si parli, continuamente, d’impazzimento del clima e d’irriconoscibilità dei tradizionali periodi dell’anno.

Ad ogni modo, a me, l’impatto con la parola marzo ha sistematicamente conferito una ventata d’energia, l’esortazione a scaricarmi, d’addosso, le incrostazioni d’acquiescenza, d’apatia mentale e d’immobilismo sonnacchioso, caratteristiche del fenomeno che, riferito a taluni animali, si definisce letargo: fare, scattare, dire, prendere iniziative.

Purtroppo, anche se rimangono immutati certi impulsi interiori, adesso lo scenario che ci circonda non è più quello di prima, si presenta, anzi, con contorni e confini radicalmente stravolti. Il mondo non appare più, neppure in prossimità della primavera, sormontato da nubi leggere in vivace corsa alla stregua di pensieri semplici e corretti, bensì schiacciato, contro natura, da nuvoloni gravidi di scontri, lotte, guerre, accuse incrociate, morti per mancanza d’acqua o di cibo o a causa di malattie inguaribili ed endemiche, vie più degradato da molteplici, quotidiani episodi d’oltraggio all’esistenza, finanche ai teneri steli dei bambini.

Il processo d’imbarbarimento, in sostanza, non concerne solamente le stagioni e gli elementi naturali - il loro deterioramento è, in ogni caso, da ricollegare ai comportamenti umani - ma si è avviluppato anche e soprattutto ai nostri cervelli.

Sembra, quasi, che sia stato del tutto abbattuto e sotterrato il primario presupposto del rispetto della stessa vita.

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