'Non è come appare' un noir plurale
Dalla Puglia all’Inferno, viaggio in 7 vite
di Antonio V. Gelormini
“Se sapessi poetare, chiederei di dare voce al silenzio” recitava Elena Loewenthal, forse ricordando le tre parole ebraiche che descrivono l’epifania del Signore, davanti al profeta focoso, fuggiasco e scoraggiato, Elia, giunto alla vetta dell’Horeb-Sinai: qôl demamah daqqah, una "voce di silenzio sottile" (1 Re, 19, 12).
Ed è per rabbia, nello sconfinato smarrimento della solitudine, che Giuseppe Di Pace decide di riempire quel silenzio, rompendo il coriaceo e rassicurante argine dell’esitazione, per liberare un’ineffabile vena creativa, che si fa sorgente di scrittura e di pagine ricche d’identità meridiana.
“Non è come appare” – Ed. Besa è un’opera prima e un noir plurale. O meglio, corale: per il ventaglio caratteriale dei suoi protagonisti e per le variegate ambientazioni di Puglia che, come riflessi di sole su cristalli di sale, s’irradiano in direzioni sconfinanti fino a raggiungere mete apparentemente lontane dall’orizzonte largo e profondo di un mare bifronte: Ionio e Adriatico.
Le radici daune dell’autore, nato a Margherita di Savoia da pescatori e contadini salinari, non impediscono che la trama del suo romanzo-noir attraversi anche il Salento, Bari (la città dove lavora come Vicequestore della Polizia di Stato) e la Murgia, per proiettarsi poi fino all’Istria, l’Irlanda, l’Estonia, Helsinky e la Nuova Zelanda, prima di dirigersi verso l’omphalus del Subappennino Dauno a S. Agata di Puglia. A due passi dalla casa natale di una sorta di madre artistica e Madonna laica letteraria come Maria Teresa di Lascia.
In questo itinerario geografico, attraversato da incipit e riferimenti a Fёdor Dostoevskij e ai Fratelli Karamazov, l’intreccio di vicende e i caratteri umani che si incrociano e si confrontano, danno vita a una serie di viaggi all’Inferno: metafore di luoghi oscuri della mente, alla ricerca essenziale e insistente della persona, ovvero “dell’uomo e della terra”.
Un racconto duro, che Giuseppe Di Pace cala nella sua terra, per farne un vero e proprio atto d’amore verso il suo essere pugliese. Una trama dal ritmo verosimile, che potrebbe facilmente diventare sceneggiatura per un’opera lirica, a cui garantirebbe intensità e linfa moderna, o per un lavoro cinematografico di spessore, anche e soprattutto per il suo dipanarsi in un arco di 3 mesi e per lo scandire galoppante dei suoi riferimenti temporali.

Una vicenda che corre verso l’Epifania e che il caso vuole imbastita da trait d’union familiari costituiti da misteriosi crocifissi ortodossi. Lo svolgersi narrativo che parte da un osservatorio privilegiato, gli uffici della Polizia di Stato, per usare il reale come trampolino per la fantasia e far viaggiare la suspance lungo i binari della poesia, della follia e della maledizione.
Un’introspezione nella bellezza, per sradicarne il male che spesso vi è celato. Proprio perché spesso “Non è come appare” e il l’inferno può incastonarsi anche nei versi affascinanti di una poesia o nascondersi tra le pareti più dignitose di un’accogliente casa per bene.
Un finale anch’esso plurale che, nel recupero di un confine amico e ancestrale, testimonia tutta la sua dinamicità come uno spirito dalle sette vite. Infatti, i sette epiloghi rispondono con la fiamma della vivacità a quella voglia primordiale di Giuseppe Di Pace: di dar corpo al silenzio custodito, attraverso l’esercizio libero della scrittura.
(gelormini@affaritaliani.it)