Più tardi nel pomeriggio
Barry Lyndon e i cine-Maestri
Cosa fare in un piovoso tramonto d’inverno?
Si prende un caffè, si respira quella strana uggiosa malinconia dei pomeriggi domenicali e si aspetta l’impulso all’azione.
Più tardi nel pomeriggio, scese le prime tenebre, si va alla storica sala cinematografica d’essai ABC, a Bari, vicino al faro di San Cataldo, a vedere un pezzo grande, grandissimo, di storia del cinema: Barry Lyndon, di Stanley Kubrick, nella versione restaurata, proiettata in settanta sale italiane.
Sono passati trentanove anni e pochi mesi dalla sua prima uscita in Italia.
In quel tempo la nostra visione di Kubrick era tutta fondata sui tre film che precedono il racconto delle avventure del giovanotto irlandese, creato da William Thackeray, più noto come l’autore de “La Fiera delle Vanità”.

“Il Dottor Stranamore” del 64, “2001 Odissea nello spazio” del 68 e “Arancia meccanica” del 1971.
Tre film molto diversi fra loro, ma con l’apparente, ingannevole e seducente comune denominatore: mettere negli occhi e nelle orecchie dello spettatore una visione, grottesca, filosofica e profetica del futuro.
La sorpresa fu grande quando vedemmo Barry Lyndon.
Prima di tutto ci risultava ostico associare Kubrick, già da quei tempi considerato il più grande regista di cinema vivente o quasi, ad un lungometraggio in costume.
“Spartacus” e “Orizzonti di Gloria” non possono essere catalogati come film in costume.
In secondo luogo un cast incerto, Ryan O’Neal era conosciuto solo per “Love Story” e “Paper Moon”, dove peraltro era stato schiacciato da sua figlia Tatum e Marisa Berenson, era un’indossatrice di grido, ma non attrice affermata tranne che per una breve apparizione in “Morte a Venezia” di Luchino Visconti.
La storia di Thackeray era picaresca, poco originale, un falso romanzo di formazione.
Kubrick dette ragione a tutte le nostre perplessità e sorprese, ma smentì quella più importante.
Barry Lyndon era un altro incredibile capolavoro del regista più misterioso, appartato e inafferrabile dell’universo cinematografico.
In principio c’era la luce e gli strumenti per darle corpo.
Così potrebbe iniziare una tesi sulla tecnica di ripresa del film.
Kubrick rifiutò drasticamente l’innaturalità della luce artificiale e girò con la luce solare o a lume di candela, supportato dai nuovi obiettivi della Zeiss, modificati all’occorrenza.

La luce da sola non basta a spiegare la magia di quelle immagini.
L’altro gioco diabolico è l’estensione del campo visivo, scandito da una serie di ostinate zoomate in allontanamento, che fingono di restituirci con precisione le immagini dell’epoca in cui si svolgono gli accadimenti: il Settecento, quello di pittori come Hogarth, Watteau e Reynolds.
All’apparenza Barry Lyndon è un succedersi dolce di immagini soffuse, un po’ sfocate, di alto nitore formale, alla stregua dei quadri spesso citati direttamente nella pellicola.
In realtà Kubrick gioca con noi con un unico obiettivo dichiarato: filmare, pensare e guardare al Settecento.
Dietro i paraventi delle belle immagini Kubrick ci narra del secolo dei lumi per quello che effettivamente fu.
Un’epoca di cambiamenti violenti, di guerre sanguinose ed infinite, di rivoluzioni indelebili, di mutamenti nel pensiero e nella scienza.
Un secolo di lotta inesausta fra le classi sociali, per la presa del potere o per l’affrancamento da antiche servitù.
Il secolo di Voltaire, di Robespierre e di Federico il Grande.
Il secolo del piccolo mascalzone Barry Lyndon.
La luce soffusa è l’espressione della nostra visione del passato. Il nostro occhio.
Una luce che non ci fa vedere ciò che non va visto, ma ci fa immaginare, pensare al di là di tutte le troppe alte definizioni dei tempi d’oggi.

E la musica?
Il tema dominante è una Sarabanda dalla Suite n°11 per clavicembalo di Haendel, arrangiata da Leonard Roseman, con suoni più scuri e drammatici, ripetuta fino all’ossessione.
La fusione tra musica e immagini conferisce alla lenta danza un carattere sorprendentemente melodrammatico.
Quello che non ci si aspetta. Il cinema cambia la musica e la sua percezione.
Più tardi nel pomeriggio, uscendo dal cinema felici e appagati, il pensiero corre a tratti, ancora, alla distanza tra il film appena visto e “2001 Odissea nello spazio”, e al suo incipit con le scimmie e la musica di ‘Also sprach Zarathustra’.
In fondo la soluzione è semplice. Stanley Kubrick sta al cinema, come Richard Strauss sta al melodramma e che Barry Lyndon sta al Settecento, come ‘Il Cavaliere della Rosa’ di Strauss sta al Settecento.
In entrambi i creatori, ogni nota, ogni fotogramma ha il dono dell’irripetibile unicità e della visione del tempo in ogni direzione.
(1. continua)