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Sport
Lo sport è sempre più digitale: il matrimonio (di interesse) con lo streaming
Dusan Vlahovic

Il contratto tra Netflix e la Formula 1 è solo un assaggio: ecco perchè lo sport e le piattaforme digitali hanno deciso di fare squadra


Da un lato c’è Netflix, che ha un evidente bisogno di rimettere in sesto i propri conti (ne abbiamo scritto QUI). Dall’altro ci sono i manager dello sport, che hanno un altrettanto evidente problema di ricambio generazionale nella propria fanbase. Così come efficacemente spiegato dagli esperti di Nielsen (ne abbiamo scritto QUI), la generazione digitale ha linguaggi tutti suoi, completamente diversi dalle precedenti, e per entrarvi in relazione bisogna impararli in fretta. 

Così le piattaforme di streaming, per le quali i giovani ormai ignorano quasi completamente la tv, diventano preziosi facilitatori, ai quali gli sport fanno ricorso per svecchiare il proprio pubblico. Nemmeno lo sport più popolare al mondo, il calcio, è immune dalla difficoltà nel raggiungere questo target. Complice il flusso di cassa quasi del tutto bloccato a causa del Covid, sono proliferati esperimenti molto interessanti come la serie “All or nothing”, che ha portato sugli schermi di Prime Video il dietro le quinte di alcuni dei principali team, in Italia la Juventus, o altri prodotti simili riguardanti Real Madrid, PSG e singoli calciatori. Questo avviene sul mercato internazionale, con la Vecchia Signora quale unica rappresentante nostrana. Sul fronte specificatamente italiano, Dazn e la Lega Serie A hanno aperto un tavolo di progettazione per realizzare prodotti analoghi, secondo una linea editoriale molto precisa: ormai da tempo, il “format” classico della partita in diretta, che dura 90 minuti, è in forte crisi.

Come conquistare il target della fascia 18/24 anni? Così cambia il marketing sportivo

Nell’era di Instagram e TikTok, la soglia di attenzione dei giovani si limita a pochi minuti, se non secondi, come dimostrato anche da varie ricerche scientifiche. Piaccia o meno, anche lo sport deve adeguarsi, producendo contenuti “mini” per durata e “maxi” per engagement, prendendo ispirazione dai fulminei reel che scorrono sugli smartphone. Quelli sportivi sono tra i più visiti, ma si tratta, appunto, di pochi secondi: giocate spettacolari, gesti divertenti o anche immagini rubacchiate fuori dal campo, ma, nel complesso, uno storytelling ben diverso da quello al quale siamo abituati da anni di trasmissioni televisive. Il mondo è cambiato.

In quanto allo specifico di Netflix, ha riscosso un enorme successo “The Last Dance”, la video-epopea di Michael Jordan, che però è uscita nel 2020: nell’epoca più difficile della crisi sanitaria, i vari lockdown hanno sospinto la crescita della piattaforma, che ora deve fare i conti con un rimbalzo negativo veramente preoccupante. 

In questo nuovo scenario è maturata l’idea di un altro matrimonio win-win, questa volta con la Formula Uno. Data per assodata la situazione di Netflix, il “Circus” ha invece la necessità di svincolarsi da un pubblico sempre più anziano e conquistare il mercato dei millennials. Il docufilm “Drive to survive”, la cui prima edizione risale al 2018, proseguirà quindi anche nel prossimo anno, a seguito del rinnovo contrattuale che prevede almeno un’altra stagione di partnership. Come minimo, perché gli esiti sono così esaltanti da far prevedere ulteriori estensioni.

Anzi, il fenomeno “Drive to survive” è già diventato un punto di riferimento anche per altri sport, come il tennis e il golf, che hanno l’identico problema di dover svecchiare la propria fanbase. Da qui l’idea di ricorrere a Netflix, che oltretutto ha già avuto una felice esperienza con il miniserie dedicata a Naomi Osaka. Laddove ci sono i personaggi (e il tennis ne ha certamente tanti, da Novak Djokovic alla nostra Camila Giorgi), la narrazione prende un tono sempre più da influencer e sempre meno legata ai canoni lasciatici in eredità dai cantori classici dello sport, da Gianni Brera e Gianni Clerici. Questo vale a maggior ragione per il golf, che oltretutto deve affrancarsi dalla sua dimensione elitaria: testimonial come Tiger Woods rappresentano risorse preziose, a patto che si sia capaci di raccontarli con uno storytelling adeguato per intercettare la fuggevole attenzione del pubblico più ambito, quello tra i 18 e i 24 anni. Ed è questa la partita più difficile, per qualunque sport.  
 

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