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Sport

 

1 San SiroPanoramica fine anni '60 di San Siro, ancora circondato dalle auto.
Milano, Centro Documentazione Rcs Quotidiani
©RCS Quotidiani – Fotografia di Sergio Borsotti

Di Giordano Brega

Quando Milano aveva un'anima... potrebbe iniziare così il racconto proveniente da un mondo lontano. Spiegando e trasmettendo la testimonianza di una città che viveva i propri sogni e scriveva il proprio futuro con una frenetica voglia della gente comune di essere protagonista nel piccolo-grande mondo che stava creando. Utopia? Macché. Semplicemente, erano i favolosi anni '60. Favolosi, sì: perchè letteralmente sembrano usciti da una favola, racconto lontano di un tempo che si è dissolto nella nebbia della Val Padana.

Ecco, la mostra su Nereo Rocco ed Helenio Herrera è tutto questo e molto altro.

Un tuffo in un passato cui molti di noi possono attingere solo attraverso i racconti dei proprio genitori o nonni. O peggio, leggerlo solamente sulle pagine fredde e impolverate dei libri di storia. Senza toccare con mano quanta energia e carica ci fosse in quella città così apparentemente uguale e così profondamente diversa dalla Milano di oggi. Piena di virtù che pesavano più dei vizi, ieri. Capovolta nei valori (e nelle speranze), oggi. In fondo, fare un salto a Palazzo Reale (da qui all'8 settembre: un buco nella propria agendina è quasi doveroso) serve anche a questo e non si deve essere malati di calcio o cuori rossonerazzurri per farlo. Basta aver voglia di scoprire due personaggi stupendi, due comunicatori epici come il Paron Rocco e il Mago Herrera.

Osservando sullo sfondo, ma neanche poi troppo, le immagini di quel mondo in bianco e nero targato anni '60.

Flashback della mostra

Le foto della gente, scrutando nei loro occhi, sogni e pensieri consegnati in un istante all'eternità: la coppia col figlio in braccio che fa il giro della domenica mentre il Pirellone si mostra in tutta la sua carica alle loro spalle, piuttostoché l'uscita degli operai alle cinque del pomeriggio nelle fabbriche di viale Abruzzi, la mitica Darsena, gli immigrati che sbarcano alla Stazione Centrale. La città di sogni e sacrifici che si affianca alla Milano da bere (o meglio, la sua antenata) in cui si scorge anche Renato Pozzetto che canta in un bar attorniato dalla gente, la prima della Scala, le luci che splendono nella notte...

O sbirciando una serie di filmati che sembrano usciti da una macchina del tempo. Un esempio? Imperdibile la chicca del giovin Adriano Celentano che si improvvisa giornalista, intervistando mister HH dopo un derby. Recrimina con la sua eterna ironia per due gol non assegnati alla 'loro' Inter e scherza poi  - microfono  alla mano - pure con Nereo Rocco e i patron rossonerazzurri Angelo Moratti e Franco Carraro.

La Milano che non c'è più, cuore di un'Italia che in molti rimpiangono. Forse, potrebbero rinascere mano nella mano, anche partendo dalla ricerca del loro antico spirito che aleggia in queste settimane nelle stanze di Palazzo Reale...

2c H e R CORRIERE INFORMAZIONEDibattito tra Mago e Paròn al Corriere d’Informazione. Milano, Centro Documentazione Rcs Quotidiani ©RCS QuotidianiGuarda la gallery

 

Cover Rocco

QUELLI CHE... MILAN INTER ’63
La leggenda del Mago e del Paròn

Milano, Palazzo Reale, sino all’8 settembre

La mostra che si è aperta a Palazzo Reale il 24 maggio racconta una storia leggendaria: la rivalità, la carriera e l’amicizia di una coppia celeberrima del calcio italiano e internazionale, quella formata da Helenio Herrera e Nereo Rocco, il Mago e il Paròn dei mitici anni Sessanta milanesi. Un percorso di immagini, ricordi  e documenti che racconta anche la Milano di quegli anni, che stava trasformandosi nella città di riferimento in Europa, non solo per lo sport, ma anche per la cultura, lo spettacolo, il design, la moda, le sue grandi aziende.

La mostra, promossa dal Comune di Milano – Cultura, prodotta da Palazzo Reale e Skira editore e curata da Gigi Garanzini, storico giornalista sportivo, è sostenuta dalle due squadre di calcio simbolo della città – FC Internazionale Milano e AC Milan – che hanno messo a disposizione straordinari materiali d’archivio, dalla RAI, che ha generosamente condiviso i preziosissimi materiali delle sue Teche dai quali sono tratti i filmati che accompagnano il percorso espositivo, e da Gazzetta dello Sport, anch’essa coinvolta con il suo archivio e come media partner.

Cinquant’anni fa, il 22 maggio del 1963, il Milan di Nereo Rocco vince la Coppa dei Campioni, il 26 maggio dello stesso anno l’Inter di Helenio Herrera festeggia lo scudetto e da qui al 1969 si snoda una stagione magica e irrepetibile: i due allenatori faranno di Milano la capitale europea e mondiale del calcio, alternandosi nella conquista di trofei nazionali, europei e mondiali.

Eppure i due personaggi non potrebbero essere però più diversi.
Questa contrapposizione diventa il tema centrale della mostra, che attraverso centinaia di fotografie, numerosi e rari filmati, installazioni, oggetti di culto appartenuti ai due allenatori, disegna un ritratto veritiero e umanissimo di due personaggi che hanno fatto la storia del calcio e in parte della Milano del 1963.

Helenio Herrera è argentino, uomo internazionale, vissuto in Marocco e in Francia, calciatore discreto, allenatore grandissimo. Nasce povero e diventerà ricchissimo. Vince il campionato a Barcellona nel 1959 e nel 1960, poi arriva in Italia, chiamato da Angelo Moratti, storico presidente dell’Inter, già come una star. Moratti gli raddoppia l’ingaggio e con lui cambia per sempre il parametro economico delle retribuzioni sportive. Herrera si costruisce la fama di mago grazie alle vittorie consecutive con l’Inter nel 1963, 1964 e 1965 in Europa e nel mondo e contribuisce a far diventare la squadra milanese la prima società sportiva del globo. Parla quattro lingue, dà del lei ai giocatori, vive per il calcio. È astemio, vive quasi da asceta, si dedica allo yoga. Ha il culto del proclama, un ego ipertrofico ed è un dongiovanni impenitente. Avrà tre mogli: l’ultima, Fiora Gandolfi, celebre giornalista dell’epoca, tuttora fedele custode della memoria di HH, gli darà il figlio Helios. Avrà altri sei figli: due francesi e tre spagnoli dalle prime due mogli e Luna, una bimba adottiva incontrata a Barcellona e portata in Italia.

Nereo Rocco è l’opposto. Nasce da una famiglia borghese triestina, dal cognome Roch all’asburgica e si rivela da subito un brillante talento calcistico. Esordisce a sedici anni in serie A, ma sceglie di restare a Trieste, dove il padre è proprietario di una macelleria che in parte il giovane Nereo gestisce. A trentasei anni guida la Triestina che si classifica seconda dopo il Torino, allena per tre anni il Treviso, poi il Padova che fa salire in serie A. Il Milan lo assume nel 1961, vince subito il primo scudetto e nel 1963 la mitica Coppa dei Campioni contro i portoghesi del Benfica. Parla solo triestino, o meglio uno slang italo-triestino, si considera il fratello maggiore dei giocatori, alterna il ruolo di padre spirituale a quello di sergente di ferro. Ha il gusto della battuta fulminante. Il suo “ufficio” è nelle varie osterie predilette: a Milano al ristorante L’Assassino il suo tavolo è sempre aperto agli amici e a qualche giornalista, ama mangiare e bere, ha una moglie all’antica, la siora Maria, che morirà dopo di lui quasi centenaria e due figli, Tito e Bruno. La sua straordinaria carriera al Milan vedrà anche un periodo di allontanamento e dissapori, ma il ritorno a Milano nel 1967 frutterà un altro scudetto al primo tentativo, seguito dalla Coppa dei Campioni, dalla Coppa Intercontinentale e da due Coppe delle Coppe.

Rocco muore nel 1979, Herrera gli sopravvive di quasi vent’anni, morendo nel 1997. In mezzo c’è un rapporto di accesa rivalità all’inizio, ma anche di grande stima reciproca che diventa col tempo di complicità e amicizia. Sono due grandi comunicatori che recitano la parte imposta dai rispettivi ruoli.

La mostra milanese si apre proprio sul tema della rivalità iniziale: il visitatore potrà scegliere infatti un ingresso nerazzurro o uno rossonero, che naturalmente poi confluiranno in spazi comuni.
La prima sezione, a cura di John Foot (professore inglese di Storia moderna italiana, e profondo conoscitore della Milano di quegli anni), è dedicata alla Milano del 1963, con splendide fotografie e filmati non sportivi, di altri celebri rivali, personaggi come Celentano e Jannacci, Walter Chiari e Gino Bramieri, Maria Callas e Renata Tebaidi, aziende come Motta e Alemagna: una panoramica del meglio della città dell’epoca.
E poi, in una rassegna che raccoglie circa cento foto d’autore (scelte dallo storico della fotografia Cesare Colombo) la vita sociale della città, con gli immigrati, le fabbriche, la motorizzazione, i nuovi consumi, fino al cinema e ai protagonisti della vita culturale.

Cover Herrera

La mostra prosegue con una sorta di memoriale, con fotografie e oggetti di Herrera e Rocco da piccoli e via via più adulti, con un omaggio speciale a Gianni Brera, massimo cantore del calcio a tutto tondo. Maglie, scarpe, ricordi personali, la famosa lavagna tattica di Herrera, un quadro che il grande De Chirico aveva regalato a Rocco per consolarlo di una sconfitta.
Seguono poi filmati e interviste, che ripercorrono storia e personalità dei due protagonisti.

Viene quindi ricostruita l’atmosfera degli spogliatoi, compreso lo scorrere dell’acqua e il profumo di olio canforato, con alcune sorprese per i visitatori negli armadietti che si aprono e mostrano filmati divertenti, spesso inediti.
Segue la sala dei Trionfi, con tutte le coppe vinte da Herrera e Rocco e sullo sfondo una parete rosa con le pagine storiche della Gazzetta dello Sport.
Ancora fotografie e filmati di allenamenti, con i due tecnici nella loro quotidianità, tra panchina, dialoghi con i giocatori e vita in campo. Sfilano le immagini di grandi campioni come Mazzola, Picchi, Suarez, Corso, Altafini, Rivera, Trapattoni.

Chiude la mostra una sala video dove altre immagini, altre interviste si alternano a spezzoni delle grandi finali europee e mondiali vinte dai due personaggi.

Tutto il materiale è raccolto e illustrato anche in un libro speciale, che farà da catalogo della mostra, edito da Skira.

Una mostra quindi destinata ad almeno tre generazioni di sportivi e sportive. Quella che ricorda le imprese del Mago e del Paròn, quella che ne ha letto o sentito parlare, quella che invece ne scoprirà all’improvviso sia le gesta, sia la straordinaria personalità.

Biellese d’origine e langarolo d’adozione, Gigi Garanzini in realtà ha praticamente sempre vissuto a Milano, esplorando tutte le possibili declinazioni del giornalismo. Scritto (La Notte, il Corriere della Sera, La Voce, La Stampa, Il Sole 24 Ore) televisivo (Fininvest e Rai) e radiofonico (Radio 24). Oggi persino interattivo, sul sito del Sole 24 Ore.
Ha anche diretto il centro-stampa milanese di Italia ‘90 e le relazioni esterne del Settore Tecnico di Coverciano. Ha pubblicato Il romanzo del Vecio, dedicato a Enzo Bearzot, La leggenda del Paròn, nel ricordo di Nereo Rocco e un libello dal titolo E continuano a chiamarlo calcio.
Nel 2012 ha curato a Trieste la mostra dedicata al centenario della nascita di Rocco. Da quella fortunata esperienza è nata l’idea di raddoppiarla a Palazzo Reale con la leggenda incrociata del Mago e del Paròn, a cinquant’anni dalla prima volta in cui Milano divenne la capitale europea del pallone.

 

Quelli che...
Di Gigi Garanzini

Quello che alle sei del mattino si alzava.
Quello che spegneva finalmente la luce.

Quello che ai giocatori dava del lei.
Quello che dava del tu, e spesso del mona.

Quello che non poteva fare a meno della lavagna tattica, al punto da inventarsene un modello da viaggio.
Quello che non l’avrebbe usata nemmeno sotto tortura.

Quello che era uno scienziato del football, con qualche sconfinamento nella stregoneria.
Quello che prima l’uomo, poi il calciatore.

Quello che metteva per iscritto con una grafia minuta tutto il suo lavoro.
Quello che scarabocchiava una formazione ogni tanto, purché su una tovaglia d’osteria.

Quello che parlava tre lingue e se la cavava con l’arabo.
Quello che ha sempre e soltanto praticato il triestino.

Quello che considerava il pasto una noiosa incombenza da sbrigare al volo.
Quello che da tavola non si alzava mai, pur di infliggere a chi lo nutriva e soprattutto dissetava perdite irreparabili.

Quello che si esprimeva per proclami.
Quello che la battuta innanzitutto.

Quello che si chiamava Helenio Herrera, cittadino del mondo se mai ve n’è stato uno.
Quello che era nato Nereo Roch, e del tramonto dell’impero di Francesco Giuseppe non s’è mai dato davvero pace.

Il destino ha voluto che nei primi anni ’60 le loro traiettorie si incrociassero a Milano. E restassero da allora intrecciate per sempre, dapprima nel segno della rivalità, poi della complicità, infine dell’amicizia. Già sin dai tempi in cui ufficialmente erano cane e gatto, perché così prevedeva un copione che stava facendo la fortuna di entrambi, avevano cominciato di tanto in tanto a frequentarsi. Poi poco alla volta il rapporto si era fatto più saldo, così che le disavventure dell’uno sollecitavano spesso il conforto dell’altro. Infine, badando sempre a tenere a distanza giornalisti, fotografi e operatori di ripresa, venne il tempo in cui sorreggersi a vicenda nel percorrere i rispettivi viali del tramonto.

Il Paròn fu tra i primi a far visita al Mago quando un infarto mise fine ad un breve replay sulla panchina dell’Inter. Il Mago consolò il Paròn dal licenziamento fiorentino con una lettera che cominciava così: “Caro Nereo, è proprio vero che nel nostro mondo i mona sono troppi”. Quando poi nel ’79 il Paròn salutò per sempre la compagnia, il Mago pensò che la morte non era una ragione sufficiente a cancellare le buone abitudini. Così, di tanto in tanto, lasciava di buon mattino la sua splendida dimora veneziana per far rotta su Trieste. Arrivato al cimitero di Sant’Anna, chiedeva alla moglie con quella dolce fermezza che non ammette repliche di aspettarlo in macchina: perché col suo vecchio amico Nereo preferiva parlare a quattr’occhi.

La loro prima stretta di mano risaliva all’autunno del ’60, nella plaza de toros dell’Appiani. Sul suo campo il Padova del Paròn era un osso duro per tutti, l’anno prima all’Inter di Angelillo aveva rifilato un tre a zero memorabile. Ma questa era la nuova Inter di Herrera, che nelle due precedenti trasferte in provincia aveva segnato cinque gol a Bergamo e sei a Udine. A parte i quotidiani sportivi, comunque assai più scarni e soprattutto sobri degli attuali, lo spazio che i giornali dell’epoca dedicavano al calcio era limitato. Ma quel poco, dacchè era sbarcato reduce dai fasti di Barcellona, era tutto o quasi per il Mago sin dal primo giorno di ritiro a San Pellegrino. Le squadre di allora partivano piano piano, passeggiate tra i boschi, corsette sui prati, di calcio in senso stretto si cominciava a parlare non prima di un paio di settimane. Herrera non solo introdusse il pallone sin dal primo giorno. Ma per rendere l’idea dell’intensità con cui i giocatori lo dovevano aggredire, lanciò da subito il grido di guerra destinato a griffare la sua epopea: tacalabala. Seguirono a ruota una vera e propria rivoluzione alimentare, l’allungamento dei ritiri pre e post-partita, e quei celeberrimi cartelli di spogliatoio che mettevano nero su bianco i suoi slogan ripetuti sino all’ossessione. Sino al momento clou, mezzora prima della partita, quando toccava alla squadra schierata in circolo e con le mani posate sul pallone (che il Mago reggeva di sotto) pronunciarli a voce alta e salendo progressivamente di tono, a chiudere il cerchio dell’autosuggestione.

Difficile ricostruire, a distanza di oltre mezzo secolo, se quel pomeriggio del 13 novembre echeggiarono nello spogliatoio del Padova le promesse di vittoria strillate nello stanzone accanto. Fatto sta che il Paròn, abituato in quei momenti a stemperare la tensione con battute di alleggerimento, ci mise invece il suo carico da undici: ‘Ndemo, ‘ndemo fioj, che al Mago ghe batémo le croste. Vinse difatti il Padova, che interruppe così l’imbattitibilità italiana di Herrera; e con lo stesso punteggio, 2-1, si ripetè al ritorno a San Siro. Proprio quel doppio, prestigioso successo facilitò a Gipo Viani, general manager rossonero, il compito di convincere il presidente Rizzoli che era Nereo Rocco l’allenatore da prendere per la stagione successiva. Non fu comunque impresa facile quella di Viani, antico sodale e insieme rivale del Paròn. Un curioso mix, il loro rapporto, di affinità e rivalità, di affetti e di furori, iniziato nei primissimi anni del dopoguerra quando presero a contendersi l’invenzione del libero. Viani pretendeva di averlo brevettato allenando prima la Salernitana, poi il Modena,

Rocco replicava con la sua Triestina imperniata in retrovia su Blason. Mentre Herrera, ad ogni buon conto, faceva risalire l’origine del catenaccio – in francese béton, cemento – ad una sua libera interpretazione del ruolo di difensore nello Stade Francais del ’42. Fermo restando che persino gli svizzeri, con il loro verrou, non hanno mai smesso di rivendicare la primogenitura del catenaccio, il Paròn in tarda età rilanciò con Banas, allenatore del Padova 1940-41. Chissà se oggi che non il catenaccio, per l’amor di dio, ma la semplice cura della fase difensiva è passibile di avviso di garanzia, i nostri eroi andrebbero avanti ad accapigliarsi sulle ricette per non prendere gol, anziché per farne.

A quei tempi così, anche così, andava il calcio. Sicché se nell’estate del ’60 Angelo Moratti non aveva badato a spese per strappare al Barcellona Helenio Herrera, sull’altra sponda nell’estate del ’61 Andrea Rizzoli aveva avuto più di una perplessità sul conto di Nereo Rocco. Già in materia di quella che oggi chiamiamo immagine c’era una bella differenza tra i due. Ma erano i rispettivi curriculum a scavare il solco. Herrera vantava esperienze francesi di buon livello, compreso un breve periodo nel ’47-48 alla guida della nazionale, e spagnole di caratura assai più alta, con una bacheca di tutto prestigio: due campionati vinti con l’Atletico Madrid nei primi ’50, altri due con il Barca nel ’59 e ‘60 oltre a una Coppa del Re e a una Coppa delle Fiere. Per tacere del ruolo di commissario tecnico delle furie rosse che allora, in Spagna come altrove, era curiosamente compatibile con la guida di un club.

Rocco aveva sì all’occhiello il prestigioso secondo posto della Triestina ’48 alle spalle del Grande Torino, e sette brillanti stagioni padovane: ma di trofei nemmeno l’ombra. Non solo. Herrera aveva una dimensione internazionale a tutto tondo che andava oltre le vittorie, a cominciare dall’impeccabile padronanza di spagnolo e francese, dalla discreta conoscenza dell’inglese e dalla rapidità con cui si impadronì dell’italiano. Mentre il Paròn non solo con le lingue straniere era perduto, ad eccezione di qualche espressione in tedesco: ma persino con l’italiano, lui, antico suddito di Francesco Giuseppe, si sentiva a disagio. Lo aveva studiato, lo scriveva correntemente e in qualche caso brillantemente. Ma il meglio di sé lo dava col triestino, che era un po’ la sua coperta di Linus. Proprio sul dialetto della sua terra, il Paròn aveva costruito nel tempo quella commedia dell’arte che faceva da filo conduttore alle sue giornate, professionali e non. In triestino parava le stoccate e toccava di rimessa: in italiano, salvo rari momenti di grazia, difendeva male e contrattaccava peggio. Nell’autunno ’61 Herrera bissa la partenza lanciata dell’anno prima. Alla sesta giornata vince proprio a Padova, la settima contro un Milan privo tra gli altri di Altafini sembra una formalità.

Peccato però che Rocco abbia nel frattempo traslocato, dalla panchina padovana a quella rossonera. Così, il largo sorriso con cui il Mago dà il benvenuto al Paròn nella loro prima sfida rossonerazzurra, ricambiato da un’ampia scappellata, si contrae con il passare dei minuti in una smorfia. Vince 3-1 il Milan, contro ogni pronostico: e proprio da lì parte la lunga cavalcata verso il primo scudetto del Paròn. Si rifarà nel derby di ritorno il Mago, battendo finalmente quello che è ormai a tutti gli effetti il suo rivale. Ma anche la sua seconda stagione italiana si chiude senza trofei. Succede di tutto in quell’estate del ’62, sullo sfondo dell’infausto mondiale cileno. E se nell’antivigilia primaverile Herrera viene inserito in una trojka tecnico-dirigenziale che dovrà guidare la spedizione azzurra, con Mazza e Ferrari, tempo due mesi e più di una polemica feroce e rieccolo in Cile alla guida della Spagna, già diretta tre stagioni prima. Mica finita. Il presidente Moratti la prende molto, ma molto male e lo sostituisce con Edmondo Fabbri, che si presenta regolarmente in ritiro. Dove pochi giorni dopo ripiomba il Mago, tornato a Milano come niente fosse e capace soprattutto di convincere il presidente che l’anno successivo sarà quello buono.

Il Paròn nel frattempo è in Brasile, a caccia di talenti per preparare la Coppa dei Campioni. Qualcuno dall’Italia lo invita a recarsi in aeroporto, a San Paolo, dove la comitiva azzurra farà scalo verso il Cile. Che tocchi in extremis a lui prendere il posto lasciato libero da Herrera? Macché. Una bufala, o a scelta uno scherzo di pessimo gusto. Pagato caro dall’Italia che andrà allo sbando senza una vera guida, tecnica e ambientale. Ma anche dal Milan. Che anziché con l’incedibile Garrincha vedrà il Paròn rimpatriare con Germano, il peggior affare di una lunga e onorata carriera. Amen. A settembre riparte il campionato. Con Fabbri riciclato-dirottato sulla panchina azzurra, e con Milan e Inter grandi favorite per il titolo. Andrà anche meglio di così. Perché Herrera vincerà finalmente il suo primo scudetto italiano, dando il là ad un filotto irripetibile. E Rocco sarà il primo allenatore nostrano a levare al cielo la Coppa dei Campioni. Quell’anno i derby finiscono in parità: uno a uno all’andata, stesso punteggio al ritorno.

Ma mentre l’Inter assume la definitiva fisionomia che la porterà nel giro di due stagioni sul tetto d’Europa e poi del mondo, il Milan poco alla volta la smarrisce. Al punto che già a marzo, quando ormai il campionato è andato, il Paròn capisce che non è più aria e accetta la proposta di trasferirsi al Torino. La voce prende a circolare: il fatto che nessun dirigente rossonero gliene chieda conto convince Rocco che togliere il disturbo è davvero la soluzione migliore. Passo dopo passo l’Inter si avvicina al titolo, e se lo aggiudica di fatto domenica 28 aprile, giorno di elezioni politiche, passando sul campo della Juve con un gran gol del ventenne Mazzola per poi vincerlo aritmeticamente la giornata successiva. Intanto il Milan continua ad avanzare in Coppa sino a qualificarsi per la finale.

Si arriva così al maggio milanese. A quei quattro giorni in cui la città diventa finalmente capitale del calcio europeo. Con la prima Coppa dei Campioni vinta dal Milan di Rocco a Wembley mercoledì 22 maggio. E il primo scudetto dell’Inter di Herrera, ottavo della società, celebrato domenica 26 a San Siro con un festoso pareggio contro il Torino di capitan Bearzot. Cinquant’anni dopo, la rivisitazione di quell’epopea non poteva che passare attraverso due personaggi a modo loro irripetibili. Fortunati due volte, sia a far parte di società di prim’ordine, sia a poter disporre di squadre di grande spessore, in cui il talento dei campioni si integrava a meraviglia con la dedizione di quelli che campioni non erano. Due personalità così straripanti, e così paradossalmente complementari, da rivoluzionare addirittura le modalità di identificazione di una squadra di calcio. Prima dell’Inter di Herrera e del Milan di Rocco ce n’erano stati di squadroni. Ma tutti passati alla storia attraverso i nomi dei loro campioni più celebrati. Il Real Madrid di Di Stefano, la Honved di Puskas, il Torino di Valentino Mazzola, la Juve di Charles e Sivori, la stessa Inter di Nyers e Skoglund piuttosto che il Milan del Gre-No-Li.

All’improvviso in quei primi anni ’60 l’Inter è diventata quella di Herrera, e il Milan quello di Rocco. E mezzo secolo dopo la tipologia battesimale non solo resiste, ma è più attuale che mai: la Juventus di Conte, il Napoli di Mazzarri, il Milan di Allegri, l’Inter di Stramaccioni. Giusto Cruyff e Maradona hanno targato i rispettivi club e le loro nazionali a danno degli allenatori. Oggi ci sta riuscendo Messi, forse perché Guardiola nel frattempo se n’è andato. In quel maggio ’63, Rocco festeggia i 51 anni. Herrera ne ha appena compiuti 47. In teoria. In realtà ne ha 53, ma questa è una scoperta che si compirà solo dopo la sua morte. Ufficialmente Helenio era nato a Buenos Aires il 16 aprile del 1916, perché così risultava da un certificato di nascita da lui richiesto verso la fine degli anni ’50. Il fatto è che su quel documento c’era uno zero che pareva un sei: e al Mago, ormai alle soglie dei cinquanta ma assai più giovanile, non era parso vero di poter assecondare la sua storica vanità calandosene sei in un colpo solo. Così toccò a Fiora Gandolfi, la sua ultima moglie, scoprire a scomparsa avvenuta la vera data di nascita del marito. Non fu l’unica sorpresa, per la verità. Donna Fiora, giornalista di scrittura colta e raffinata, aveva conosciuto Helenio a Grottaferrata nel ’69 per un’intervista, ai tempi in cui il Mago allenava la Roma.

Dopo il matrimonio e la nascita di Helios, nel ’72, non aveva tardato ad accorgersi che tra i tanti insaziabili interessi di HH un posto di riguardo era riservato alle donne. All’eterno femminino, non necessariamente regale. Tra un civile confronto, una franca spiegazione, e un occhio da chiudere di tanto in tanto, meglio se tutti e due, il rapporto è durato e si è consolidato nel tempo. Salvo scoprire, post mortem, che la longevità di Helenio era stato davvero degna di un Mago. Non solo per i sei anni da aggiungere. Ma per le divertite confessioni delle sue amiche veneziane – sue di lei, mica di lui – con le quali il marito sino all’ultimo ci aveva provato. Herrera d’altra parte, pur essendo nato in Argentina da genitori spagnoli, era cresciuto sulle palafitte di Casablanca e aveva assimilato la cultura araba, poligamia compresa. Un’infanzia poverissima, sia a Buenos Aires dove i suoi erano emigrati per ragioni anche politiche (il padre, Paco el Sevillano, era anarchico) sia in Marocco da dove il giovane Helenio raggiunse avventurosamente la Francia all’età di vent’anni in cerca di fortune calcistiche e non solo. Tutto il contrario del Paròn, figlio di un macellaio benestante che riforniva di carni le navi dei Lloyd nel porto di Trieste, allora sbocco al mare dell’impero.

Nereo crebbe in una famiglia borghese, scoprì durante gli studi di avere talento calcistico, e dopo il debutto in serie A da ragazzo prodigio, a soli sedici anni, consumò nella sua città quasi l’intera carriera, conclusa da tre stagioni a Napoli e da una a Padova quando la guerra impose una chiusura precoce. Dopodiché, mentre Herrera si faceva largo in Francia dapprima giocando e poi cominciando ad allenare, ma sempre arrabattandosi in mille mestieri per spedire quattrini alla famiglia, Rocco iniziò a Trieste anche il suo percorso in panchina, proseguendolo a Treviso e a Padova. Come a dire, a stretto tiro di macelleria, perché papà Giusto pur rispettando la vocazione dell’unico figlio maschio, un’occhiata al negozio di via Slataper forse non l’ha mai imposta. Ma l’ha sempre sottintesa. Difficile immaginare due percorsi più diversi. Di formazione, ma anche di realizzazione. Mentre il giramondo Herrera dalla Francia raggiungeva la Spagna, partendo da Valladolid e passando poi per tre stagioni all’Atletico Madrid, cui seguirono Siviglia, Malaga, Deportivo la Coruna e infine il Barcellona, con una parentesi portoghese al Belenenses, il borghese Rocco organizzava il presente e preparava il futuro badando innanzitutto a presidiare il territorio. E a costruire e perfezionare le due ridotte di resistenza umana su cui l’intera sua filosofia di vita e di lavoro era imperniata: lo spogliatoio e l’osteria. Dello spogliatoio aveva fatto, già a Trieste ma poi meglio a Padova, una sorta di trincea e insieme un centro di autocoscienza. Là dentro non ci si cambiava e lavava come era stato sino ad allora. Ci si parlava, confrontava, litigava, e soprattutto divertiva. Ma quando serviva ci si confessava, singolarmente o collettivamente, da persone prima ancora che da calciatori.

Il Paròn avrebbe anche avuto uno stanzino tutto per sé. Ma dentro c’erano le ragnatele, perché non volendo perdersi uno sguardo, una frase, un’imprecazione dei suoi, si cambiava e si lavava con la truppa. Pronto a prendersi sul serio e a recitare la parte del mister (purché nessuno si azzardasse a chiamarlo a quel modo, sennò partiva il classico mister te sarà ti, muso de mona) se gli pareva che le acque fossero troppo chete: e a buttarla in scherzo, se non proprio in vacca, non appena avvertiva che la tensione era salita e rischiava di avvicinarsi al livello di guardia. Alla truppa dava ovviamente del tu, e pareva durasse fatica ad accettare il lei quando erano gli anziani a parlargli. Ai più giovani dava ininterrottamente del mona, senza traccia di sforzo, perché così andavano le cose negli anni ’50 e quella sorta di nonnismo bonario era del tutto in linea con i tempi. Assai più professionalmente, Herrera ha sempre dato a tutti del lei, senza mai accennare a ridurre le distanze perlomeno sul piano formale. Sembrano sfumature irrilevanti. Sembrano. D’altra parte, a parità non solo di personalità molto spiccate ma anche di modelli vincenti, è difficile immaginare due soggetti più dissimili.

La loro non era una semplice diversità. Era una bio-diversità. All’alba il Mago era in piedi. Dormiva in media setteotto ore, salvo partite serali che gli costavano in genere una notte in bianco. Al risveglio, si piazzava in posizione yoga completamente nudo (come documentato dalla fantastica immagine scattatagli da Fiora che chiude il percorso della mostra), e dopo un’ora di esercizi in cui si diceva in francese, e a voce alta, quant’era calmo, quant’era sereno, e quanto era bello, eccolo pronto per la prima colazione. Ovviamente frugale, a tendenza macrobiotica, cui dopo una congrua lettura di giornali seguiva la prima razione di scrittura quotidiana, in genere corrispondenza. La giornata era di totale intensità, da giovane come da vecchio, da tecnico in carriera come da pensionato, perché ottimizzare il tempo era per lui un’autentica ossessione. Nella seconda e conclusiva seduta di penna e di matita, in genere prima e dopo la cena, il Mago scriveva davvero di tutto, da grafomane compulsivo. E tutto conservava e catalogava. Gli appunti tattici, le schede tecniche, le tabelle di preparazione, gli esercizi fisici per evitare gli infortuni e quelli per guarirne. Sino alle ricette per alleggerire i piatti, rendendoli meno pesanti e altrettanto saporiti, o agli abbinamenti cromatici in materia di auto-abbigliamento. Abito grigio? La camicia di questi e questi altri colori. E così per le cravatte, i pedalini, la cintura, le scarpe. Vogliamo parlare del Paròn? Sempre correttamente vestito, per carità. A maggior ragione quando girò un Carosello e si pavoneggiò per qualche tempo con gli abiti che gli erano stati forniti, senza aver ben realizzato il perché. Sinché una sera, attraversando piazza della Scala, non si vide in posa in una gigantografia sormontata dalla scritta “Anche Rocco veste Facis”. Chiamò subito la siora Maria a Trieste (me scondo de la vergogna), poi ci bevve su, ma il suo amico Nicolò Carosio, uno dei pochi che potevano permettersi di sfotterlo, su quella gag campò di rendita per anni. All’ora in cui il Mago si svegliava, il Paròn grosso modo si addormentava. Non c’erano ancora le edicole notturne a Milano. Ma lui, una volta cacciato a forza dall’Assassino (el mio uficio) dopo aver contato fiaschi e bottiglie decapitate, e una volta giocate tutte le possibili rivincite a scopa, e poi la bella, e poi la rivincita anche della bella, passava in via Solferino a prendere il Corriere fresco di stampa: negli ultimi anni anche la Gazzetta. Poi al residence ne perlustrava ogni riga, così da svegliarsi perfettamente informato.

E se il Mago passava a tavola il tempo strettamente necessario al nutrimento, e viveva come autentiche torture le serate al ristorante le rare volte che vi era costretto, il Paròn a tavola ha trascorso una buona fetta della sua esistenza. A Trieste, quasi sotto casa, ai tavoli di Yeti. A Padova da Cavalca, dove il patron aveva avuto la malaugurata idea di dirgli, signor Rocco, consideri questa trattoria come casa sua. A Milano, per l’appunto, all’Assassino di Ottavio Gori, cuoco ufficiale al seguito del Milan nelle trasferte europee, in fondo a via Amedei, cento metri più giù delle Colline Pistoiesi di Pietro Gori, fratello maggiore e tifoso interista almeno quanto Ottavio era malato di rossonero. Ma anche in famiglia, in quei lùnedi consacrati al riposo o alle visite di amici. Come la volta che sotto il pergolato del giardino arrivò Brera e Gianni Minà realizzò uno speciale che ha davvero fatto epoca. Si alzarono alle sei del pomeriggio, andarono a farsi giusto due passi sul molo Audace di fronte a piazza Unità ma poi, per rimediare all’imprudenza, rimisero i piedi sotto la tavola da Suban, su verso Opicina, e ovviamente fecero notte. Racconta divertita Fiora, a proposito di indugi e tempi morti, che Helenio nemmeno davanti a una serratura ha mai perso una frazione di secondo. Ne avevano sei da affrontare per salire nel loro nido veneziano, tutte diversamente orientate, un sistema di sicurezza che il Mago aveva studiato e perfezionato nei suoi difficili anni parigini. Lei ci perdeva le giornate. Lui tra una chiave da mezzo giro a sinistra e un’altra da tre verso destra, trovava anche il modo salendo le scale di sfilarsi la cravatta, sbottonare la camicia e mollare un po’ alla volta tutto il resto. Una volta dentro, si avventava sotto l’acqua, fingeva di asciugarsi e un istante dopo, dormiva. Nemmeno un attimo della sua giornata doveva andar sprecato. Centottanta gradi più in là, esattamente allo zenit, il Paròn non ha mai sopportato l’idea di doversi misurare con il tempo. Non solo quello da trascorrere con gli amici, e con il suo inseparabile bicchiere di vino. Ma nemmeno in panchina.

Dove l’orologio ovviamente l’aveva, ma vigliacco se soltanto lo sbirciava. Per paura che il tempo si fermasse se vinceva, o corresse troppo in fretta se perdeva. Maggio ’63. All’indomani della finale rossonera di Londra, il Corriere pubblica in bella evidenza un commento firmato Helenio Herrera. Ne ha scritti tanti in vita sua, soprattutto a fine carriera e un po’ su tutti i giornali del mondo. Ma quello, intitolato “Milano capitale/del calcio europeo” e sormontato dall’occhiello “Herrera giornalista a Wembley”, non è soltanto uno straordinario omaggio ai rivali cittadini: è anche una felice profezia. Il Mago infatti conclude augurandosi che al grande ciclo spagnolo del Real e a quello portoghese del Benfica ne segua uno di stampo milanese. In attesa di realizzarlo già l’anno successivo, e proprio a spese del Real nella finale di Vienna, Herrera si gode la vigilia della festa scudetto a San Siro. Il Paròn no. La sua prima Coppa dei Campioni è offuscata dalla tristezza dell’addio. Ci provano in tanti a fargli cambiare idea dopo il trionfo, le mozioni degli affetti si sprecano, soprattutto da parte di quei dirigenti che sino a un mese prima non vedevano l’ora di liberarsene. L’ultimo tentativo è del presidente Rizzoli. Come si fa a perdere un allenatore che al primo tentativo vince lo scudetto e l’anno successivo ti consegna la Coppa dei Campioni? Capisce subito, il cumenda, che non è aria. Ma da uomo d’affari innanzitutto, non può evitare l’ultimo assalto, la domanda finale. Signor Rocco, lei con il Torino ha firmato qualcosa? Un istante che il Paròn si era sognato per mesi. La risposta esatta sarebbe stata, cossa el vol, go fato una sigla su un tovagliolo. Quella che gli sgorga è diversa. Go fato de pezo: go dà la mia parola. Anche qui, forse, anzi certamente, rispunta la biodiversità. Non che il Mago non fosse a sua volta profondamente orgoglioso. Un hidalgo, se è per questo. Ma a differenza del Paròn era stato troppo povero per rinunciare a monetizzare situazioni come quelle. Da buon borghese figlio di commerciante, Rocco riconosceva a sua volta il valore del quattrino. Quante volte, tornato al Milan dopo quattro anni di esilio torinese, provò invano a lamentarsi con Carraro della disparità di trattamento economico (tra l’altro di gran lunga superiore a quella da lui immaginata) rispetto ad Herrera. Ma l’aver patito troppo a lungo la fame è tutt’altra molla dal rispetto del denaro. Quel giorno Herrera nei panni di Rocco avrebbe lasciato il commendator Rizzoli in brache di tela. Rocco nei panni di Rocco lo lasciò invece in balia di quei consiglieri snob che per due anni avevano fatto la forca all’allenatore ideale del Milan: come oltre al presente, anche il futuro si sarebbe premurato di dimostrare. Se ne andò, il Paròn, con un bel magone ma da gran signore. E il presentimento che gli allenatori passano: ma i dirigenti pure. Le strade dunque si dividono.

Torneranno a incrociarsi a Milano quattro anni più tardi, e tutto curiosamente ricomincerà come la prima volta, con il Paròn che arriva e vince subito lo scudetto ’68, per poi bissare l’anno dopo con la Coppa dei Campioni. Ma in sua assenza il rapporto di forze è abissalmente mutato. Mentre il Milan vivacchia aggrappandosi invano alla classe di Rivera, l’Inter del Mago spopola in Italia, in Europa e nel mondo. Due scudetti, ’65 e ’66, due coppe dei Campioni e altrettante Intercontinentali negli anni di grazia ’64 e ’65. Per non parlare dei legittimi rimpianti per i due titoli nazionali sfuggiti nello spareggio col Bologna del ’64 e all’ultima giornata del ’67: quest’ultimo quattro giorni dopo una finale di Coppa Campioni buttata con il modesto Celtic. Quello che il Paròn ritrova sull’altra panchina cittadina, insomma, è un Mago carico di gloria. Ma anche segnato dalla doppia mazzata di Lisbona e Mantova. Un anno più tardi, proprio mentre Rocco celebra la prima delle sue rivincite, si chiude non soltanto il grande ciclo del Mago ma anche quello di Angelo Moratti. Herrera passa alla Roma. Ci resterà per cinque anni, prima di lasciarsi convincere dalla nostalgia più che da Fraizzoli a tentare la rentrée. Il tempo di incrociare un’altra volta i ferri con il Paròn, che nel frattempo ha collezionato un numero impressionante di secondi posti culminati nella fatal Verona, ed ecco che a porre termine al revival interviene nientemeno che un infarto.

Tornerà HH al calcio attivo tre anni più tardi a Rimini, vivrà un breve quanto strepitoso revival nell’80-81 nientemeno che al Barcellona, sfiorando la Liga e mettendo in bacheca la Coppa del Re. Ma ormai il grande avvenire è dietro le spalle. E buon per lui che la carica vitale continui come si è visto a funzionare, e gli consenta prima di arrendersi ad un altro insulto cardiaco di tagliare brillantemente il traguardo degli 87. Anche se all’epoca ne risultavano 81. Molto più breve, per non dire fulminea, la parabola discendente del Paròn. Tutta nel segno del suo Milan, da direttore tecnico, poi di nuovo in panchina da salvatore della patria, infine da consigliere e padre nobile. Prima della resa definitiva ad un mix di broncopolmonite e cirrosi epatica che ce lo portò via nel febbraio del ’79, a nemmeno 67 anni.

Chi li ha conosciuti, chi ne ha sentito parlare, chi per beate ragioni anagrafiche li ha scoperti grazie a questa mostra, non si fermi ai palmarès. Ci sono stati, ci sono e ci saranno allenatori che hanno vinto, vincono e vinceranno di più. La loro superiore dimensione, la ragione per cui mezzo secolo dopo siamo qui a ripercorrerne il cammino e a scandagliarne le personalità, sta anche e soprattutto nella loro straordinaria capacità di comunicare. Cinquant’anni fa la comunicazione, che oggi è una disciplina, era una capacità istintiva. Non c’è dubbio che entrambi, il Mago come il Paròn, la padroneggiassero con un’ efficacia in largo anticipo sui tempi. Se parliamo di stampa scritta, mai un’intervista banale: e sempre, per il titolista, un’ampia varietà di opzioni su come annunciarla, valorizzarla, strillarla. Che fosse migliore il giornalismo di allora? Può essere. Anzi è assolutamente certo. Ma ripensando alla strepitosa, doppia gag con Celentano nel dopo-derby ’68, è bravo il cantante a creare l’atmosfera di quello che va oggi sotto il nome di cazzeggio. In compenso quei due, reduci dallo stress di un derby tirato e discusso, come sempre se era Lo Bello ad arbitrare, sono semplicemente perfetti. Sia nell’assecondarlo sinché si scherza; sia nel prenderne le distanze non appena si entra nel merito. Quello che… Quello che se l’è sempre tirata da poaréto. E se a uno scappava detto “caro Paròn, vinca il migliore”, si ritrovava fulminato sul posto: ciò, spérémo de no. Quello che… Quello che non risulta sia mai successo. Ma se qualcuno avesse osato, ne sarebbe uscito fulminato alla rovescia: amigo, claro que sì.

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