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Cronache
Forteto: "Ho mentito al processo sotto minaccia"
Emanuele Bimonte

Per la seconda sezione penale del Tribunale di Firenze, la deposizione (del 25 marzo 2015) di Emanuele Bimonte – un ragazzo di recente fuoriuscito dal Forteto - era stata «assolutamente inverosimile, non credibile e reticente sugli aspetti essenziali oggetto delle domande e delle contestazioni». Con un’intervista del 5 febbraio sul Corriere Fiorentino, però, Emanuele è tornato a parlare. «Minacciarono di farmi passare per pazzo e di allontanarmi per sempre da mia figlia – ha detto – perché non raccontassi la verità sul Forteto al processo contro Rodolfo Fiesoli e i suoi collaboratori». E ancora: «Così ho ceduto alle pressioni degli imputati, in quella che era ritenuta una comunità modello».

Emanuele, mentendo, cercò di fornire uno scudo alla comunità mugellana: investito da una valanga che proprio in quelle udienze disvelava – parola dopo parola – anni di abusi e violenze. E che portò, poi, alla condanna del 17 giugno 2015. Confermata (seppur di poco ridimensionata) dalla Corte d’Appello l’anno successivo, il 15 luglio 2016. Ornella Galeotti, il pm di Firenze che ha sostenuto l’accusa nel processo principale, ha aperto un' inchiesta in cui risultano indagati i due «genitori affidatari» di Emanuele: Mauro Vannucchi ed Elena Tempistini - condannati per maltrattamenti (in attesa della Cassazione), rispettivamente, a 3 anni e 2 mesi e 3 anni. Il reato contestato: subornazione di testimone. Dai giudici, in quell’occasione, Emanuele non fu creduto. E tuttavia ora potrebbe aggiungere particolari a un caso che sembra non finire mai. Che cosa ha nascosto ai giudici? Solo lui fu costretto a dichiarare il falso in aula? E, se sì, in che misura?

Emanuele (oggi 31enne) è entrato in comunità a 11 anni, a causa di un padre violento. Con lui, i fratelli Jonathan, Christopher e Luna. «Da allora – ha ricordato –  ho subito umiliazioni e soprusi, anche se non gli abusi denunciati da altri miei compagni». Ancora: «Sono stato costretto ad accusare mia madre (naturale, ndr) di violenze che in realtà non ha mai compiuto». Di più: «Dove avrei dovuto riacquistare serenità non ho mai fatto una vita normale: a 12 anni era già a lavorare nella cooperativa del Forteto, in officina o come stalliere. Anche di domenica». Non basta: «I rapporti col mondo esterno erano molto limitati. L’estraneo era considerato una minaccia. Guai a frequentare i compagni di scuola: volavano pugni, schiaffi e calci. Poi mi ripetevano di essere un inetto. E ho finito quasi per crederci».

Oggi ha una nuova vita, a Faenza. Dopo un matrimonio fallito, con una figlia, e una nuova compagna. A rialzarsi lo hanno aiutato la Regione Toscana e l’associazione Artemisia (con il progetto Oltre). E a breve sarà ascoltato dagli inquirenti. «Non ho più nulla da perdere – ha continuato col Corriere Fiorentino – Correrò il rischio di finire sotto inchiesta per aver detto il falso, ma devo farlo per la mia bambina. Non voglio che viva in un clima di menzogne e vessazioni come me». Ricorda con amarezza quei momenti: «Non volevo deporre ma ho subito un’angosciosa pressione dai miei genitori affidatari e dagli imputati (…) Ho ceduto a quelle intimidazioni descrivendo ai giudici una realtà edulcorata della comunità».

Per false dichiarazioni rischiano di finire a processo anche alcuni soci del Forteto (non imputati) che testimoniarono in primo grado. «Deposizioni ammantate di reticenza, volute omissioni e verità distorte», scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza.  Inoltre, c’è il cosiddetto Fiesoli Bis. Un dibattimento collaterale dove il Profeta è accusato da un minore finito al Forteto che, per alcune anni, prima di fuggire, sarebbe stato vittima di costanti abusi. E mentre il caso è approdato (ed è fermo) a Roma, un altro tassello oscuro si aggiunge alla storia. Che di chiaro, del resto, non ha mai avuto molto.

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