Israele, 75 anni fa la nascita dello Stato. Una storia scritta con il sangue
Dalla dichiarazione d'indipendenza, passando per i venti insurrezionali sul fronte dell'impero Ottomano fino al conflitto con la Palestina
Israele festeggia 75 anni dalla nascita dello Stato
Lo Stato di Israele oggi compie 75 anni. Grande poco più della nostra Emilia-Romagna, è nato sulle spoglie del mandato britannico della Palestina, una forma mascherata di imperialismo che, in seguito al crollo dell'Impero Ottomano, permise alla Gran Bretagna di governare l'area che oggi corrisponde a Israele, alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza, dal 1920 al 1948. Quello stesso anno, venerdì 14 maggio, alla vigilia dello Shabbat, mentre gli inglesi ammainavano per sempre l'Union Jack, nel salone del museo di Tel Aviv -oggi noto come Independence Hall-, in diretta radio David Ben Gurion leggeva la dichiarazione d'indipendenza e proclamava la nascita dello Stato di Israele.
La storia che porta alla sua creazione inizia alla fine del XIX secolo, quando la neonata Organizzazione Sionista, fondata il 29 agosto 1898 dal commediografo e giornalista viennese Theodor Herzl, inizia a lavorare alla costituzione di uno Stato ebraico in Palestina. Herzl conosceva la Palestina solo dai libri e sosteneva che gli arabi non avessero nulla di cui preoccuparsi, dal momento che “gli ebrei non hanno alle spalle alcune potenza belligerante, né hanno una natura incline alla guerra”. Di diverso avviso erano gli arabi fra i quali, fin dal principio del XX secolo, iniziarono a diffondersi i “timori di un'invasione di ebrei europei”. A partire dal 1908, intellettuali e pensatori come Najib Azuri e Najib Nassar avevano infatti iniziato a scrivere articoli nei quali mettevano in guardia i loro connazionali riguardo al sionismo. Per Nassar era chiaro che le intenzioni del movimento fossero quelle di trasferire i palestinesi altrove.
Nel frattempo, sul fronte dell'Impero Ottomano, soprannominato il “malato d'Europa”, venti insurrezionali iniziavano a soffiare in ogni angolo del suo vasto territorio. Come racconta il filosofo palestinese Sari Nusseibeh nel suo libro “C'era una volta un paese” (Il Saggiatore), anche in Palestina, fin dal 1880, aveva avuto inizio movimento fautore di una libertà di stampo europeo. E sempre lui scrive che i primi cambiamenti erano stati determinati dal legato della Terra Santa. “Lo zar Alessandro II edificò la Clonia Russa per ospitare il flusso di pellegrini ortodossi. Per non essere da meno il Kaiser tedesco costruì l’abbazia benedettina del Monte Sinai. I protestanti costruirono scuole e ospedali. I cattolici nominarono quello che doveva essere il primo patriarca latino dai tempi delle crociate, e il barone Edmond de Rothschild eresse mulini a vento per una colonia di agricoltori ebrei”. Verso la fine del XX secolo gran parte degli ebrei che risiedevano a Gerusalemme “erano ortodossi provenienti dall’Europa dell’Est o ebrei di lingua araba che vivevano con gli arabi da tempo immemorabile, e nella vita e cultura araba si sentivano pienamente integrati”.
Poi arriva la Grande Guerra, l'epoca della relativa tolleranza tramonta e tutti gli scenari si complicano. Senza stare a ricostruire quello che accade intorno al Mediterraneo, soprattutto sul fronte della Mezzaluna Fertile, basti sapere che per l'attuazione del progetto sionista, fino a quel momento rimasto allo stato embrionale e considerato di difficile attuazione, intervengono due elementi nuovi che inaspettatamente ne decreteranno la riuscita.
Il primo è l’accordo segreto Sykes-Picot, siglato nel 1916 fra Gran Bretagna e Francia, in base al quale le due potenze definiscono le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente in caso di sconfitta dell’Impero Ottomano. In quel frangente, per favorire il Movimento Sionista, la Gran Bretagna ottiene il controllo della zona del Levante, inclusa la Palestina. Una scelta fortemente “orientata” dal memorandum intitolato “Il Futuro della Palestina” nel che il politico liberale Herbert Samuel, primo ebreo ad essere ammesso nel governo, fece circolare all’interno del gabinetto britannico. Nel documento sosteneva che i tempi per fare della Palestina “la casa degli ebrei” non erano ancora maturi e che sarebbe stato “altamente raccomandabile fare in modo che venisse annessa nell’Impero Britannico” descrivendo la scelta “come la migliore delle soluzioni per la piena riuscita dei disegni sionisti” e auspicando che sotto gli inglesi “un numero crescente di ebrei sarebbe arrivato a popolare la regione”. Nel 1920 Herbert Samuel sarebbe stato nominato primo Alto Commissario per la Palestina.
La seconda è una lettera dell'allora ministro degli esteri inglese Lord Arthur James Balfour, datata 2 novembre 1917, indirizzata al banchiere barone Lionel Walter Rothschild, passata alla storia come Dichiarazione Balfour, e dietro la stesura della quale c’era l’abile e machiavellico contributo di Chaim Weizmann, futuro primo presidente di Israele.
Frutto di mesi di incontri fra diplomatici inglesi ed esponenti di spicco della comunità ebraica internazionale, nel documento veniva manifestata la piena simpatia per le aspirazioni sioniste. "Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni".
La missiva si chiudeva con la preghiera da parte del ministro di condividere il messaggio con la federazione sionista. L’11 dicembre 1917 l’armata britannica, comandata dal generale Edmund Allenby sconfiggeva l’esercito ottomano nella battaglia di Gerusalemme e conquistava la Città Santa. Quando Allenby entra in città, al suo fianco si trova l’Unità militare giudaica, posta sotto l’alto comando britannico. Fra i membri che la componevano c’era un giovane David Ben Gurion e Nehemiah Rabin, padre di Yitzhak Rabin.
Eppure, due anni prima, per garantirsi il sostegno contro l'Impero Ottomano, la Gran Bretagna, già firmataria dell'accordo segreto degli Stretti, che prevedeva che in caso di vittoria della Triplice Intesa – Francia, Russia e Gran Bretagna- Costantinopoli e i Dardanelli sarebbero stati assegnati alla Russia, aveva fatto un'altra promessa, in netto contrasto con quella proposta ai sionisti.
Nel 1915, infatti, i britannici erano entrati in contatto con lo sceriffo della Mecca al-Husain-ibn-Ali, al quale avevano chiesto di scatenare la ribellione contro l'Impero Ottomano offrendogli in cambio non solo oro e armi, ma “il diritto di creare uno Stato Arabo o Stati Arabi, entro confini vagamente definiti, nei territori a prevalenza araba dell'Impero, inclusa la Palestina”.
La ribellione araba esplose, così come stabilito, guidata dal celeberrimo archeologo spia Lawrence d'Arabia, al secolo Thomas Edward Lawrence. Gli arabi che vi aderirono credevano sarebbe stato lo strumento per realizzare l'unità e l'indipendenza dalla Sublime Porta. Come ricorda David Hirst nel suo libro “Senza pace. Un secolo di conflitti in Medio Oriente”, gli inglesi per alimentare il sogno di una Palestina araba e libera, arrivarono al punto di lanciare dagli aerei dei volantini nei quali era scritto a lettere cubitali “unitevi a noi per la liberazione di tutti gli arabi dal dominio turco, così che il regno arabo possa tornare a ciò che era al tempo dei vostri padri”.
La storia ci ha insegnato che le cose sono andate diversamente e che la speranze arabe furono vane o, dovremmo forse dire, riposte nelle mani sbagliate. La Gran Bretagna non aveva il diritto, né morale né politico, di promettere la terra che apparteneva agli arabi ad altre popolazioni. Letta in questa chiave non è difficile capire che la Dichiarazione Balfour è stata illegale e immorale.
La spregiudicata ambiguità britannica è l’innegabile madre di una catastrofica serie di eventi. Così come innegabile è la sua responsabilità nei conflitti scatenatisi fra i coloni ebrei e gli arabi, ancor prima che il piano per la spartizione della Palestina mandataria in due Stati venisse adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Responsabilità che è alla base del sanguinoso e irrisolto conflitto israelo-palestinese.
In aggiunta alle ambiguità sopra descritte, l'ultimo periodo del mandato britannico è stato all'insegna del disimpegno e, sotto gli occhi complici del suo esercito, in Palestina era già scoppiata una sorta di guerra civile che vedeva da una parte le forze paramilitari ebraiche inquadrate nell'Haganah – milizia creata fin dall’avvio delle prime ondate di emigrazione ebraica in Palestina per proteggere gli insediamenti- e nell'Irgun; dall'altra la popolazione araba che si difendeva dagli attacchi imbracciando i fucili. Per fare solo qualche piccolo esempio: il 18 aprile 1948 le forze britanniche dislocate a Tiberiade costrinsero tutta la popolazione palestinese, cinquemila persone, ad abbandonare la città. Un piccolo contingente di combattenti rimasti a difenderla venne trucidato e subito dopo le milizie ebraiche la occuparono.
Ad Haifa sono stati cinquantamila gli abitanti arabi costretti ad abbandonare le loro case e tutto quello che avevano, caricati di peso su imbarcazioni inglesi e trasportati ad Akko, da dove sono poi stati deportati in Libano, Egitto, Giordania, insieme ai diecimila abitanti della stessa Akko. Anche quelli di Jaffa hanno seguito lo stesso destino; a causa della vicinanza con Tel Aviv la battaglia per la difesa della città è stata più cruenta della altre. Fatto unico nel suo genere, qui la resistenza araba è stata guidata da una donna, Moheba Khorsheed (Jaffa, 1921- Egitto 2000), insegnante e attivista politica.
La sua storia merita di essere ricordata dal momento che è quasi dimenticata. Nata a Jaffa, diplomata a Gerusalemme presso l'Istituto superiore per insegnanti, tornata nella sua città natale inizia ad insegnare alle ragazze delle scuole superiori, instillando loro lo spirito del nazionalismo. Quando nel 1947 le tensioni e le lotte tra i paramilitari palestinesi e sionisti aumentano, fonda una società femminile chiamata Zahrat al-Uqhawan - I fiori di crisantemo-, con la quale raccoglie fondi per acquistare armi e fornire assistenza alle famiglie palestinesi già sfollate. La svolta arriva quando Khorsheed vede un cecchino britannico sparare alla testa di un bambino palestinese di dieci anni che muore tra le braccia di sua madre. I fiori di crisantemo a quel punto vengono trasformati in un'organizzazione armata di sole donne. A capo di questo esercito al femminile, ha svolto un ruolo di primo piano nell'organizzazione e nell'attuazione delle operazioni di difesa della città.
Dopo la caduta di Jaffa, Moheeba Khorsheed è stata una dei diciassettemila abitanti deportati. Dopo essere passata prima per i campi profughi del Libano e poi in quelli giordani, si è stabilita in Egitto, dove si è sposata, è tornata ad insegnare e dove è morta nel 2000, senza mai più poter far ritorno nella sua città natale. Più di 50mila abitanti di Lod e Ramleh, bombardate dalle forze aeree israeliane, sono stati espulsi da queste due città nel mese di luglio del 1948. Senza provviste e quasi senza acqua, sono stati costretti a camminare sotto un sole cocente. Molti sono morti in quelle che sono diventate note come le “marce della morte” dei palestinesi.
Figlia dell’ambigua e controversa Dichiarazione Balfour, la Risoluzione 181 votata il 29 novembre 1947 prevedeva la nascita dello stato ebraico, al quale veniva assegnato il 56% del territorio, e uno stato arabo da far sorgere sulla restante parte; Gerusalemme avrebbe conservato lo stato di corpus separatum, sotto l'egida dalle Nazioni Unite. Questa spartizione, approvata a larga maggioranza, accettata dal Movimento sionista e respinta da tutta la comunità araba, non è mai stata attuata.
All’indomani della costituzione dello Stato di Israele, il 15 maggio 1948 gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano lo invadevano. Malgrado non avesse ancora rafforzato le strutture del suo esercito, grazie all'appoggio di Stati Uniti e della Gran Bretagna, alle forti connessioni internazionali, all'ottima preparazione, a un equipaggiamento superiore a quello delle truppe arabe, per altro mal governate, Israele riportava una schiacciante vittoria sulle forze nemiche, invadendo la penisola del Sinai, e incorporando nei propri confini la Galilea orientale, il Negev e una striscia di territorio fino a Gerusalemme, occupando metà della città.
Nel corso di questo primo conflitto oltre 500 villaggi e 10 città arabe sono stati distrutti o rasi a suolo, cancellati dalla faccia della terra dall’esercito israeliano, al solo scopo di assicurarsi che nessuno potesse farci ritorno. Ad oggi si stima che solo nel periodo compreso fra maggio 1948 e la primavera del 1949 siano stati oltre 750 mila gli arabi deportati da Israele, espulsi dalle loro case, dalle loro città, dalla loro terra. Nel 1949 una serie di trattati di armistizio separati sono stati firmati fra lo Stato di Israele e l'Egitto, il Libano, la Giordania e la Siria.
Da allora il conflitto non ha mai trovato una soluzione. Sanguinose ondate repressive si sono succedute, unitamente ad altrettante reazioni scomposte. I Diritti Umani vengono calpestati ogni giorno nei cosiddetti Territori Occupati. Ogni tentativo per arrestare questa lunga scia di sangue, di fuoco e di odio è stato vano. Sangue a fuoco continuano a scorrere, nonostante il cessate il fuoco raggiunto ieri sera tra la parte palestinese e quella israeliana. Un accordo reso possibile dalla mediazione egiziana, e che arriva alla vigilia di un giorno che per il popolo ebraico è la Festa dell'Indipendenza. E per gli arabi l'anniversario della al-Nakba - il Disastro -, l'inizio di un drammatico interminabile calvario. Una tortura psicologica crudele, con la quale è impossibile scendere a patti e convivere. Una notte senza giorno il cui orizzonte si fa sempre più oscuro.