Greenwashing, dai big dell'oil al fashion: i casi più clamorosi del 2022

Greenwashing e ambientalismo di facciata: nel 2022 i grandi colossi del settore petrolifero (ma non solo) hanno perseguito con pratiche "verdi" discutibili

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Greenwashing, quando la lotta alla crisi climatica è solo business di facciata. Lo scenario 

Essere “green” per stare al passo con la moda. Finché non si scivola nel “greenwashing”. Pratica ormai comune, soprattutto a livello aziendale, l'ecologismo di facciata consiste nell’utilizzo della sostenibilità come mero strumento di pubblicità, e non un valore su cui fondare il proprio business. Perseguendo un unico obiettivo. Ovvero? Dimostrare a clienti e pubblico un sempre rinnovato impegno nei confronti dell’ambiente. Ma chi sono i maggiori marchi che hanno cavalcato l’onda di campagne verdi discutibili nell’anno appena passato? A scattarne una fotografia a tutto tondo è la rivista internazionale Eco Business, che ha raccolto i casi più clamorosi di falsa informazione ambientale. Dai colossi bancari internazionali ai big dell’oil, fino ai marchi di fast fashion: ecco lo scenario. 

Greenwashing e il caso di Hsbc: coltiviamo alberi (ma anche centrali a carbone)

Tra i protagonisti del greenwashing spicca sicuramente il settore bancario. Nell’analisi vengono prese in considerazione due realtà: Hsbc, uno dei più grandi gruppi al mondo, primo istituto di credito europeo per capitalizzazione con 157,2 miliardi di euro, e il colosso tedesco Deutsche Bank. Nel primo caso la realtà finanziaria ha subito il ritiro di una campagna pubblicitaria nel Regno Unito, dopo che l’autorità di controllo della pubblicità del Paese ha stabilito che Hsbc pubblicizzava un programma di piantumazione di alberi e il suo piano net-zero senza riconoscere che allo stesso tempo finanziava progetti di combustibili fossili.

La banca si è impegnata a ridurre la sua esposizione al finanziamento del carbone termico di almeno il 25% entro il 2025, ma è ancora uno dei maggiori finanziatori al mondo di progetti di combustibili fossili. L’Advertising Standards Authority ha stabilito che gli annunci di Hsbc “hanno omesso informazioni rilevanti e sono stati quindi fuorvianti“. L’umiliazione della banca ha spinto gli osservatori a chiedersi se porterà a un maggiore controllo della pubblicità del settore.

Mentre nel caso di Deutsche Bank, la banca è stata accusata di aver falsamente dichiarato che più della metà dei suoi 900 miliardi di dollari di asset erano stati investiti utilizzando criteri ambientali, sociali e di governance (Esg) in un rapporto annuale del 200- Il capo di Dws, Asoka Woehrmann, si è dimesso all’indomani dell’incursione di giugno e ha dichiarato che le critiche rivolte all’asset manager hanno trascurato il fatto che ci sarebbe voluto del tempo per raggiungere i propri obiettivi e che il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità non è un percorso lineare. Il caso è in corso.

Il greenwashing dei big dell'oil 

Ma non solo il settore bancario. Protagoniste del “greenwashing” sono anche le aziende del settore petrolifero e del gas sono spesso accusate di essere prolifiche lavatrici di verde: uno studio di InfluenceMap, un’organizzazione no-profit che monitora il lobbismo aziendale, ha cercato di dimostrarlo.

Lo studio ha rilevato che nel 2021, a fronte di sei comunicazioni pubbliche su 10 di ExxonMobil, Shell, Chevron, Bp e TotalEnergies – presentate come una forza positiva nell’affrontare il cambiamento climatico – soltanto il 17% degli investimenti di queste aziende nello stesso periodo è stato destinato alle energie rinnovabili. Lo studio ha anche rilevato che queste aziende hanno eliminato i combustibili fossili dalle loro comunicazioni. L’unica volta che la Bp menziona il petrolio nella sezione Chi siamo del suo sito web è quando parla della sua storia, ha dichiarato Faye Holder, responsabile del programma InfluenceM.

Greenwashing e fast fashion: il caso del marchio svedese H&M

Spostando poi lo sguardo verso il settore della moda, è impossibile non citare divesi case di moda che utilizzano la sostenibilità come mera faccia. Tra i brand, nell’analisi di Eco Business, viene preso in considerazione H&M. A luglio il marchio di moda svedese è stato citato in giudizio da un tribunale federale di New York per aver cercato di ingannare i consumatori attenti all’ambiente e disposti a pagare di più per prodotti ecologici con una linea di abbigliamento che presentava “schede di valutazione ambientale” nell’etichettatura, nella confezione e nel marketing. L’idea delle schede di valutazione era quella di informare il consumatore sulla sostenibilità di un articolo.

Ma alla fine l’azienda ha dovuto abbandonare l’idea dopo che un’autorità di regolamentazione olandese ha stabilito che aveva utilizzato “informazioni falsificate che non corrispondevano ai dati sottostanti“. A novembre il marchio è stato nuovamente citato in giudizio per affermazioni altrettanto ingannevoli sulla sua collezione Conscious Choice. I critici hanno affermato che il modello commerciale economico e veloce di H&M non può essere definito sostenibile, indipendentemente dalla quantità di cotone organico e riciclato.

Ocean Cleanup e la discutibile lotta ambientalista 

Infine non resta che citare il caso di un’associazione ambientalista analizzata nel report. L’Ocean Cleanup sta cercando di eliminare la Great Pacific Garbage Patch dal 2013, quando l’olandese Boyan Slat, ex studente di ingegneria aerospaziale, annunciò che avrebbe affrontato l’inquinamento marino da plastica raccogliendola dal mare con una barca. A febbraio, però, Slat è stato accusato di aver inscenato un video che mostrava la spazzatura di plastica trascinata fuori dall’oceano.

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