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Attualità
Smart Working, non più emergenza ma nemmeno nuova normalità per il domani

Il numero di smart worker è passato dai circa 570 mila del 2019 agli attuali 4 milioni. Uno studio realizzato dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano a cavallo del secondo lockdown (light) dimostra che per molte aziende lavorare in modalità smart non è più solo un paracadute d’emergenza, ma si va configurando come la nuova normalità. L’indagine che avete commissionato ad Euromedia Research, però, sostiene il contrario.

Il ricorso allo smart working è stato una necessità a cui aziende e lavoratori si sono dovuti adeguare, ma che sta travolgendo abitudini e mercati, tra cui quello della ristorazione aziendale.  Obiettivo dell’indagine che abbiamo svolto in collaborazione con l’istituto di ricerca guidato da Alessandra Ghisleri è indagare lo smart working con un approccio critico, andando ad analizzare non solo le luci, ma anche le ombre, che non sono poche. Se chiediamo agli italiani come valutano lo smart working, la risposta è positiva, ma di fronte a un’ipotesi di futuro per sempre in smart working, il 41% degli intervistati, di cui oltre il 40% donne e il 45% con figli, risponde negativamente, percentuale che sale fino al 68% quando a rispondere sono coloro che hanno già avuto modo, a cavallo tra le prime due ondate della pandemia, di tornare a lavorare in sede dopo un periodo a casa.

Cosa è emerso in sostanza da questa indagine?

E’ emerso che lo smart working agevola alcune tipologie di lavoratori ma ne penalizza fortemente altri. Il cosiddetto lavoro agile sta facendo emergere una frattura sociale tra lavoratori che possono contare su maggiori garanzie e agevolazioni e lavoratori meno tutelati, (partite Iva, contratti in scadenza, soggetti che per svariate ragioni non godono delle condizioni ideali per lavorare da casa) mettendo in evidenza quelle disuguaglianze che il lavoro in sede, con i suoi benefit e servizi per il lavoratore, aveva in qualche modo contribuito a livellare.  Si pensi ai costi maggiori che il lavoratore deve sopportare lavorando da casa, all’inadeguatezza tecnologica, alla necessità di rivedere i processi organizzativi aziendali che il lavoro da remoto ha richiesto. Ma il dato più allarmante emerso da questa indagine è il ruolo della donna in smartworking, spesso costretta a gestire lavoro, famiglia e casa. Non è un caso che siano proprio le donne con il 54,3% a manifestare maggiori difficoltà a conciliare vita privata e lavorativa, contro il 62,4% degli uomini che, invece, dichiara di non aver avuto difficoltà in questo senso.

Secondo l’indagine Oricon, quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi dello smart working? Dovendo fare un bilancio, pesano di più gli uni o gli altri?

Lavorare in smart working ha indubbiamente dei vantaggi, inutile negarlo, in primis il tempo risparmiato per raggiungere il posto di lavoro e ritorno (considerato un elemento positivo per il 44,2% degli intervistati), ma il 31% degli intervistati lamenta la mancanza di un confronto con i colleghi, il 28,4% segnala difficoltà a separare vita privata e lavorativa, che comporta stress e  difficoltà di concentrazione, il 21,5% non dispone di una postazione di lavoro adeguatamente allestita, con la tecnologia che rende più agevole ed efficiente il lavoro e la documentazione necessaria.

Dato interessante è che gli svantaggi sono sentiti maggiormente da chi ha avuto modo di tornare al lavoro dopo il primo lockdown: tra questi, la difficoltà nel separare vita privata e lavoro sale al 30,2%, il 23,5% rileva un maggior carico di lavoro affrontato nelle giornate a casa senza limiti di orario , le difficoltà per la mancanza di una postazione di lavoro adeguatamente allestita salgono al 22,8%, il 16,7% riconosce un calo della concentrazione e il 20% degli stessi evidenzia difficoltà organizzative generali lavorando da casa. Non da ultimo, tra gli svantaggi c’è un’alimentazione più disordinata e meno varia, con frequenti spuntini e meno tempo dedicato al pasto: alla fine del primo lockdown 1 cittadino su 3 si è ritrovato in sovrappeso.

Per il vostro settore, cosa significherebbe se lo smart working diventasse la “nuova normalità”?

Quello delle mense è un settore nel quale operano oltre 1.000 aziende in Italia, per un totale di 96 mila addetti, di cui 82% donne e nella quasi totalità assunti a tempo indeterminato. Nei primi giorni di settembre i lavoratori in CIG erano circa 39 mila, pari al 40% della forza lavoro. Come comparto fronteggiamo da mesi una crisi senza precedenti, ma assistiamo a delle dinamiche che rischiano, sull’onda del momento, di ridimensionare un comparto industriale il cui output è in realtà estremamente connesso al benessere sociale del lavoratore, specie quello che gode di minori garanzie. Lei consideri che l’80% degli intervistati sottolinea l’importanza di avere una mensa aziendale, percentuale che sale al 90% tra chi abitualmente ne dispone. Tra i lavoratori tornati a lavorare in sede, 1 su 5 dichiara un peggioramento generale della propria alimentazione durante il periodo di lavoro da casa. Al ristorante aziendale, però, non si riconosce solo il merito di assicurare un’alimentazione varia ed equilibrata, ma anche il suo importante valore sociale: per un italiano su 4 il pasto con i colleghi rappresenta un momento di leggerezza e di confronto. Tutti aspetti che contribuiscono, nel complesso, a migliorare il clima aziendale e il benessere dei lavoratori. Come vede, questi dati ci raccontano un’Italia stretta nella morsa di una pandemia che ci ha costretti a un cambiamento, a cui ci siamo dovuti adattare e dal quale siamo stati capaci di tirare fuori i lati positivi indubbiamente, ma che non rappresenta e non può rappresentare la nostra normalità, né oggi né in futuro.

 

 

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