Lo sguardo libero
Flottiglia per Gaza: cosa dice il diritto internazionale e dei conflitti armati sul mare

Isaac Herzog, Presidente di Israele
Nella notte la Global Sumud Flotilla è stata colpita al largo di Creta: secondo i racconti dei partecipanti sarebbero stati usati droni, bombe sonore, spray urticanti e oggetti non identificati che hanno danneggiato diverse imbarcazioni. L’azione è stata attribuita a Israele da testimoni e fonti giornalistiche, ma da Gerusalemme non è arrivata alcuna conferma ufficiale. Una fregata italiana è partita per soccorrere la spedizione. Alla Camera Pd, Avs e M5s hanno protestato e la segretaria del Pd Elly Schlein ha denunciato “un attacco deliberato all’Italia”. La premier Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani avrebbero avviato una mediazione con il governo israeliano attraverso la Cei guidata da monsignor Matteo Zuppi: le provviste a bordo della flottiglia verrebbero prese in carico da Cipro, che poi le passerebbe alle autorità ecclesiastiche per la distribuzione a Gaza. L’ONU ha chiesto un’indagine ed è arrivata la condanna dell’Ue.
Che cosa dice il diritto internazionale
Entrando nel merito del diritto internazionale – e non delle dinamiche del conflitto – e dando per scontato che, da un lato, non si può affamare una popolazione e, dall’altro, è inalienabile il diritto di Israele a vivere in pace, bisogna partire da un dato: la flottiglia non trasporta solo aiuti umanitari, ma anche simboli, attivisti, giornalisti, parlamentari e telecamere. Un’operazione che si presenta come solidale, ma che mira anche a mettere Israele di fronte a un bivio politico e mediatico. Qui entra in gioco lo spirito delle Convenzioni di Ginevra: il Protocollo aggiuntivo I del 1977 (art. 51.7) vieta l’uso di civili come scudi. E se Hamas ha trasformato Gaza in un gigantesco scudo umano fin dal pogrom del 7 ottobre 2023, con cui ha dato il via alla guerra, la flottiglia ne ripropone un equivalente sul piano simbolico.
Il diritto nei conflitti armati sul mare
La IV Convenzione di Ginevra (1949, art. 23) stabilisce che il passaggio di medicinali e di viveri indispensabili per la popolazione civile non può essere arbitrariamente ostacolato. A questo principio si è aggiunta la prassi successiva, codificata nel Manuale di Sanremo (1994) sul diritto internazionale applicabile nei conflitti armati sul mare, che riconosce la legittimità di un blocco navale se regolarmente dichiarato e notificato, purché non abbia come effetto quello di ridurre la popolazione civile alla fame (artt. 93-104). Tuttavia la flottiglia, come detto, non è un convoglio umanitario puro: agli aiuti si mescolano finalità politiche.
La scelta di Creta non è casuale
È significativo che l’attacco sia avvenuto non davanti a Gaza, ma lontano, al largo di Creta. Israele in questo modo sembrerebbe avere la certezza di muoversi nel quadro giuridico del blocco navale. Una linea coerente con lo scambio in piena estate tra Sergio Mattarella e Isaac Herzog: il Presidente della Repubblica, il 30 luglio, parlò di una situazione a Gaza “sempre più grave e intollerabile”, dove “è difficile non ravvisare l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente”. Il capo di Stato israeliano replicò: “Israele non uccide indiscriminatamente. Sì, gli errori accadono in guerra e non siamo indifferenti al dolore dei civili palestinesi. Agiamo secondo il diritto internazionale in condizioni quasi impossibili. Tutto ciò che vogliamo è vivere in pace”.
Il precedente della Freedom Flotilla
C’è un precedente. Nel maggio 2010 la cosiddetta Freedom Flotilla, composta da sei navi con attivisti e aiuti diretti a Gaza, fu intercettata dalla marina israeliana in acque internazionali. L’abbordaggio della nave turca Mavi Marmara degenerò in uno scontro sanguinoso: nove attivisti morirono subito, un decimo in seguito per le ferite. La crisi diplomatica fra Israele e Turchia fu durissima. L’ONU istituì allora la Commissione Palmer – dal nome del presidente, l’ex premier neozelandese Geoffrey Palmer – che nel 2011 arrivò a una conclusione: il blocco navale di Israele su Gaza era legittimo secondo il diritto internazionale, perché mirava a impedire il traffico di armi a Hamas; ma l’uso della forza durante l’abbordaggio fu giudicato eccessivo e non necessario. La lezione è: un blocco può essere fatto rispettare anche in alto mare, ma le modalità devono essere proporzionate e rispettose della vita dei civili.
Tecnica di guerra illegittima
Ecco il paradosso: due principi paralleli, entrambi scolpiti nelle Convenzioni – il divieto dello scudo umano e il diritto ai convogli umanitari – che si incrociano nelle stesse acque. Ma resta un dubbio: quando a bordo ci sono giornalisti e parlamentari, rischiano di diventare essi stessi scudi umani? L’articolo 51.7 del Protocollo aggiuntivo I alle Convenzioni di Ginevra vieta esplicitamente questa pratica, che non è formalmente definita come un’“arma”, bensì come un metodo di combattimento proibito, una tecnica di guerra illegittima. Ma se non lo è in senso tecnico-giuridico, lo diventa nella pratica del conflitto, perché infligge danni politici e morali tanto quanto quelli materiali?