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Dalla droga alla rinascita, Achille Costacurta: "Chiedevo l’eutanasia perché non avevo più emozioni. Quella è stata la prima volta che ho visto piangere mio padre"
Dal buio della droga e dei Tso alla rinascita: il figlio di Billy Costacurta si confessa nel podcast One More Time di Luca Casadei

Achille Costacurta, Martina Colombari e Billy Costacurta

Achille Costacurta, Martina Colombari

Achille Costacurta, Martina Colombari
Achille Costacurta racconta i suoi tormenti a Luca Casadei nel podcast "One More Time"
Il ventunenne Achille Costacurta, figlio dell’ex calciatore Billy Costacurta e dell’attrice Martina Colombari, è il protagonista del nuovo episodio del podcast One More Time di Luca Casadei, disponibile da oggi in formato audio su OnePodcast e da martedì 4 novembre in versione video su Spotify e YouTube. Nel corso della lunga intervista, Achille ripercorre senza filtri un’adolescenza segnata da detenzione, Tso, droghe, rabbia e dalla diagnosi di Adhd, raccontando anche il suo tentativo di suicidio, il rapporto difficile con i genitori e la sua voglia di riscatto, oggi lontano dal caos di Milano.
Nel dialogo con Casadei, il giovane ricorda di essere stato un ragazzo difficile fin dalle scuole medie: “In terza media non mi ammettono all’esame per il comportamento, al liceo dopo tre mesi mi sbattono fuori”, spiega. La diagnosi di Adhd arriva solo di recente, durante un ricovero in una clinica svizzera, dopo un periodo di abuso di sostanze. “Lì avevano già capito tutto senza farmi fare i test: tu ti volevi autocurare con la droga”, racconta. “Il mio cervello non produce abbastanza dopamina, ora prendo il Ritalin e riesco a leggere o scrivere per ore, cosa che prima mi era impossibile. Anche con i miei genitori le cose sono cambiate: ora sanno come dirmi di no e non litighiamo più”.
Parlando di droga e Tso, Costacurta rivela di aver cominciato a fumare a soli tredici anni e di aver provato la mescalina il giorno del suo diciottesimo compleanno. Racconta poi un episodio drammatico in cui, sotto effetto di sostanze, ebbe una colluttazione con la polizia: “Mi hanno fatto il primo Tso, poi altri sei. A Padova sono stati perfetti, ma a Milano mi hanno legato al letto per tre giorni perché avevo dato una spinta a un infermiere. Urlavo che mi serviva il pappagallo, ma ero immobilizzato mani e piedi e mi sono dovuto fare la pipì addosso”. In Svizzera, però, qualcosa cambia: “Mi hanno detto: se fossi stato fuori altri dieci giorni saresti morto, perché avevo il cuore a riposo a 150 battiti. Lì ho cambiato vita: non mi drogo più. Il loro approccio mi ha fatto capire davvero cosa conta, e li ringrazierò per tutta la vita”.
Durante la pandemia, Achille vive un altro momento drammatico: “A quindici anni e mezzo mi arrestano per spaccio di fumo. In comunità terapeutica provo a togliermi la vita: entro in infermeria, prendo sette boccettine di metadone e le bevo tutte. Mi salvano i pompieri e l’ambulanza. Nessun medico ha saputo spiegare come io sia ancora vivo: l’equivalente erano più di 40 grammi di eroina, la gente muore con uno solo”. Ricorda poi la sofferenza dei genitori: “Mia mamma ha pianto tanto, ma mio papà l’unica volta che l’ho visto versare una lacrima è stata quando mi hanno portato via. Quando mi fecero il depot, non provavo più emozioni, chiedevo solo di poter fare l’eutanasia. Lì l’ho visto piangere davvero”.
Il racconto si chiude con la rinascita. “Il giorno che esco dalla clinica mi viene a prendere mio papà. C’era un doppio arcobaleno. L’ho abbracciato forte e gli ho detto: hai visto che ce l’abbiamo fatta? È stato uno dei momenti più belli della mia vita.” Oggi Achille si dice fiero di sé e della consapevolezza raggiunta: “Non mi vergogno di quello che mi è successo, ho imparato a trasformare i traumi in forza. Dopo aver provato gli eccessi, poche cose mi fanno davvero felice. L’unica che mi fa avere le farfalle nello stomaco come l’amore sono i ragazzi con la sindrome di Down: non hanno scelto di essere così e io voglio aiutarli”.
Il suo sogno ora è quello di creare centri di ippoterapia e day hospital sul mare, dove ogni ragazzo possa avere un labrador e ritrovare la serenità: “Voglio farli venire anche dall’Africa, dove ancora oggi, in alcune culture, chi nasce autistico, albino o down rischia la vita. Io li voglio aiutare. È la cosa che più mi rende felice.”
 
   
   
  