"Plasma, concentrare gli anticorpi. Così si possono salvare più vite"
Supportiamo De Donno e Pavia con la ricerca italiana. Ci sono tecnologie per potenziare il plasma iperimmune e coprire più malati. Intervista a Fais dell’Iss
In attesa della riapertura dei Paesi tra la paura di nuove ondate di contagio e il tentativo di provare il plasma iperimmune italiano come terapia antiCovid la cronaca della pandemia continua.
Abbiamo parlato di cosa fare ora con il dottor Stefano Fais, dirigente di ricerca del Dipartimento di Oncologia Molecolare dell’Istituto Superiore di Sanità, per 8 anni direttore del reparto Farmaci Antitumorali sempre all’Iss, fra l’altro con numerosi lavori di ricerca in virologia ed un post-dottorato in Virologia ma lui vuole solo essere definito semmai un medico che fa ricerca in medicina da circa 40 anni.
Dottore, come spiega tutti i conflitti generatisi tra scienziati sul plasma iperimmune di Mantova e Pavia?
“Sul fatto che il plasma iperimmune funzioni non dico nulla di nuovo, così come dire che la terapia ha dei limiti perché, per esempio, così come viene praticata, ha bisogno di tanti donatori. Ma, credo sia importante sottolineare che se oggi si dimostrasse che la semplice trasfusione di sangue, oltre ad essere usata per trattare anemie acute o croniche, può avere effetti terapeutici sull’infezione da Covid19, creerebbe non pochi problemi alle agenzie regolamentatorie sulle nuove terapie, che oggi sono un meccanismo burocratico dai tempi lunghi o lunghissimi”.
Spieghi meglio.
“Mi spiego. E’ vero che il plasma iperimmune funziona ma io non andrei a irreggimentare una pratica antica che abbiamo visto funzionare contro il Covid”.
E cosa farebbe?
“Farei prima un passo indietro. Direi: i primi a fare questi studi clinici sono stati i medici italiani di Pavia e Mantova. Ora aiutiamo chi in prima linea ha adottato questa soluzione e modernizziamo ancora di più questa pratica antica. Aiutiamoli con le tecnologie moderne. Per noi, Italia, potrebbe essere un’occasione per dimostrare che sappiamo fare sistema.”
Cioè?
“Penso ad un modo per non dipendere dai donatori. Potrebbe essere quello di concentrare gli anticorpi che sono presenti nel plasma, senza fare le classiche sacche di trasfusione. Con le nuove tecnologie si potrebbero concentrare gli anticorpi e usare al 1000 per 100 quanto i guariti hanno messo a disposizione, donando il plasma. Questo meccanismo potrebbe dare inizio ad una nuova stagione. Sia chiaro però che le nuove tecnologie permettono di concentrare gli anticorpi presenti nel plasma dei donatori, che per la gran parte sono policlonali, e non monoclonali come la gran parte degli anticorpi terapeutici presenti in commercio; che anche se sicuramente diretti verso un singolo antigene, sono di fatto sintetici”.
Quanto dice richiederebbe una visione diversa rispetto a quella vista finora….
“A Mantova e Pavia, sono già avanti nella conoscenza specifica dell’uso dei plasmi iperimmuni per contrastare l’infezione da Covid19, e quindi da lì dovrebbe iniziare un processo che porti alla completa validazione clinica del metodo ed al suo perfezionamento per usi futuri. Questo ovviamente necessita risorse economiche ingenti, ricordiamoci che la ricerca clinica è in assoluto la più costosa”.
Infatti...
“Non dobbiamo isolare chi ha creato questa situazione ma supportarla e svilupparla. In molti Paesi del mondo questo tipo di terapia è diventata operativa sui malati. Mi sembra un cosa meritevole di essere fortemente supportata anche economicamente e si potrebbe farlo con dei fondi del ministero. Se avessimo la capacità di fare sistema seguendo anche la strada delle fondazioni bancarie da cui far nascere spin off dedicate e progetti di ricerca, con obiettivi commerciali che non nascondiamolo anche in sanità sono importanti. Dobbiamo essere un Paese in grado di pianificare delle strategie sanitarie. Mi trovo a constatare in questo periodo che questo approccio è un po' mancato. Per esempio i pareri di virologi, epidemiologi, ma anche, forse soprattutto, dei medici che pur stando in prima linea hanno cercato sempre di usare il pensiero, non dovevano finire direttamente nelle mani dei politici. In sostanza è mancata la sintesi di un clinico in grado di implementare al meglio le varie informazioni. Mi permetto di dire che la Medicina non si può basare esclusivamente sui big data e sui numeri dei report giornalieri che vengono forniti dalla protezione civile, la medicina è fondamentalmente basata sul contatto con il malato, anche se oggi ahimè sembra tutto il contrario”.
Immagino richieda del tempo il meccanismo di ricerca che porta a realizzare anticorpi concentrati da usare sugli ammalati. Intanto però che si fa?
“Mentre si va avanti nei progetti di ricerca si dovrebbe aiutare i medici di Mantova e Pavia a fare delle sieroteche provinciali, con un coordinamento nazionale in modo da potere utilizzare in ogni città nel caso di problemi, la loro cura. Ma bisogna farlo subito, da qui a due mesi. Qualcosa intanto lo abbiano pure capito...”.
Cosa abbiamo capito?
“Che i malati non devono finire in terapia intensiva e vanno curati prima. E la loro terapia può essere molto utile per evitarlo. Poi dovremmo, come Paese, marciare nella stessa direzione tutti. Anche gli scienziati che in questi mesi hanno detto tante cose contraddittorie e che sono stati in prima linea faranno pian piano marcia indietro. Ma dobbiamo trovare uno spirito unitario e comprendere che la strada non può essere solo quella di obbligare la gente a pensare che ci sarà un vaccino. Anche i vaccini nelle persone anziane possono dare delle reazioni e la gente non la puoi costringere. Si possono però provare strade diverse e meno invasive. Nelle emergenze sanitarie, come nella ricerca in medicina, si può sbagliare, perché la medicina scusatemi non è una scienza. E’ basata sull’osservazione e sul ragionamento, a volte anche quello che succede ad un singolo paziente può metterti sulla strada giusta. L’importante è ammettere gli errori, che poi errori non sono, per poi comunque cambiare strategia/terapia. Purtroppo questo avviene sempre meno”.
Come spiega che intanto Aifa e Iss hanno indicato come principali sperimentatori della plasmaterapia l'Università di Pavia e di Pisa e non l’ospedale ‘San Matteo’ di Pavia e il ‘Carlo Poma’ di Mantova che hanno creato il protocollo, sperimentandolo in prima linea?
“Spesso succede che i capofila di studi clinici siano centri Accademici/Universitari e quindi ipotizzo che anche in questo caso sia successo. Ma per una risposta più precisa bisognerebbe chiederlo a chi ha deciso”.
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