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Cronache
Sequestro Moro, Generale Cornacchia: "La sua eliminazione fu l'epilogo di una strategia politica scaturita dagli accordi di Yalta"

SEQUESTRO MORO OGGI IL RITROVAMENTO A VIA CAETANI IL RACCONTO DEL GEN. A.F. CORNACCHIA

(…) “Moro-Berlinguer” una minaccia da fronteggiare con ogni mezzo, anche illegale.  Un piano segreto dei “servizi” britannici che appoggiarono sin dal 1976 le Brigate Rosse. La logica di Yalta ha ucciso il Presidente Democristiano. Impedire a tutti i costi il “compromesso storico”. BR? solo strumenti nelle mani di altri. Moro? Troppo scomodo e pericoloso sia per gli USA che per l’URSS. Morto non avrebbe fatto più “danni”.   Era l’uomo del cambiamento. Con la sua morte si chiude, anche, la vicenda storica della Prima Repubblica, quindi, di quella classe politica che aveva caratterizzato le sorti del Paese nel secondo dopoguerra. Tra le commissioni parlamentari quella appena conclusa nel dicembre 2017 (presidenza Giuseppe Fioroni), è riuscita a fare emergere elementi concreti, fra i quali che: il rapimento e l’uccisione di Moro e dei militari di scorta non fu ad opera solo delle Br. Dopo oltre quarant’anni il caso Moro è ancora aperto. La sua lezione e il suo messaggio politico restano di grandissima attualità in una stagione politica assai confusa ed incerta. L’apparato politico nostrano si illude oggi di rimediare nel celebrare gli anniversari connotati di imbrogli e insabbiamenti. Chi ha vissuto quell’epoca sa che la verità è stata taciuta e più di qualcuno se l’è portata nella tomba. DC e PCI entrambi colpevoli dello scellerato patto della fermezza. A pochi interessava la salvezza di Moro, ma a molti interessavano i verbali del “processo” e le lettere che uscivano dalla prigione del popolo. Prodi ci dica di più su Via Gradoli. Lo spiritismo è ridicolo. Non è stato scavato abbastanza all’interno di quei partiti che gridavano “fermezza”, la verità è nascosta lì dentro. Un mix di pressioni, ricatti, offerte, mediazioni, minacce, confidenti, complici giornalisti, malavitosi, sacerdoti, trafficanti d’armi, spioni di varia natura”. 

E’ un fiume in piena il Generale dei CC Antonio Federico Cornacchia, classe ’31, nativo di Monteleone di Puglia in provincia di Foggia, oggi ispettore dell’ANC dell’Umbria e molto attivo in campo storico-letterario tramite i suoi saggi. Nome in codice “Airone 1”, un vero e proprio segugio degli anni di piombo, ovvero colui che ha lavorato – tra gli altri - sui casi Concutelli e Feltrinelli, arrestato Renato Vallanzasca, operato al fianco di Carlo Alberto Dalla Chiesa nel periodo della lotta alle Brigate Rosse, dialogato con Presidenti e Ministri (Cossiga, Pertini, Craxi etc.), collaborato con i Servizi segreti, presenziato a quasi tutte le Commissioni parlamentari d’inchiesta e, all’epoca dei 55 giorni del rapimento Moro, comandato il Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma con il grado di Colonnello. In quella primavera del 1978, nella Capitale, non si muoveva “paglia” senza il benestare di Cornacchia.

aldo moro br
 

La cosa più interessante è che l’attuale Generale è stato il primo ad arrivare in Via Caetani e il primo ad aprire il bagagliaio della Renault 4 rosso-amaranto (con un “piede di porco”) e a tirar via il plaid che copriva il presidente DC oramai esanime. 

Avvertì la Centrale Operativa del Comando Legione Carabinieri della Città. La notizia dilagò. Arrivò per primo l’onorevole Giancarlo Pajetta, del PCI, subito dopo il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, poi tutti gli altri. Dopo un lungo silenzio, assorto, Cossiga anticipò proprio a Cornacchia le sue dimissioni, cui provvederà con l’invio di una lettera privata ad Andreotti (Presidente del Consiglio), ed una al Segretario della Democrazia Cristiana On. Zaccagnini.  E’ quindi a lui, protagonista inconsapevole di quella storica e tragica giornata di maggio, che chiediamo, con grande curiosità, a distanza di 42 anni esatti, alcune verità (spesso taciute) sul caso del sequestro e l’assassinio dell’Onorevole Aldo Moro.

Generale Antonio Federico Cornacchia,

Lei avrà sicuramente risposto a migliaia di domande in passato, sia per i media che soprattutto per le varie Commissioni parlamentari d’inchiesta. A questo punto, tanto per non essere ripetitivi e banali, crediamo ci sia soltanto una cosa da chiederle. Ci racconti tutto, … o perlomeno, tutto quello che c’è ancora da sapere (a partire dal suo personale punto di vista) sull’intera vicenda Moro.    

“Con molto piacere e cercherò di essere sintetico anche se, come comprenderà, vista la delicatezza dell’argomento non sarà molto facile. Comincio col dirle che, a mio avviso, la eliminazione di Aldo Moro nella primavera del ’78 non è altro che l’epilogo di una strategia politica scaturita dagli accordi di Yalta. L’Italia, parte integrante del Patto Atlantico, non poteva, neanche con il voto democratico, avvicinarsi alla sfera sovietica. Per cui il dialogo tra la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista Italiano, tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta, era temuto sia dai regimi dell’Est comunista che dalle amministrazioni americane. Gli uni e gli altri erano terrorizzati dal “compromesso storico”, ritenuto una strategia politica che mirava al superamento degli equilibri internazionali, peraltro codificato dal trattato di pace del 1946-47.

Moro e Berlinguer costituivano, quindi, una minaccia da fronteggiare ad ogni costo, ricorrendo anche a mezzi illegali. Mentre l’Urss indirizzò la sua particolare attenzione nei confronti di Berlinguer con un attentato nel 1973, fallito, durante una visita ufficiale in Bulgaria, su iniziativa degli Usa un direttorio politico formato dagli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania, esaminò alcuni piani illegali di intervento nella prima metà degli anni Settanta, per poi, a causa degli scandali che misero sotto accusa i servizi segreti americani, passare al vaglio di una commissione segreta britannica. Tra le varie opzioni era previsto anche il progetto di “colpo di stato” da attuare in Italia, che non trovò i favori degli Usa e della Germania perché ritenuto estremamente pericoloso. La Gran Bretagna fu costretta, pertanto, ad elaborare un piano di riserva che prevedeva un “appoggio ad una diversa azione eversiva”, approvato nel ’76. Per gli inglesi era sufficiente “lasciare fare”, senza servirsi di infiltrati nelle Br, (ma sovvenzionarle), che poterono agire del tutto indisturbate per oltre due anni sino al tragico agguato in via Fani il 16 marzo ’78.

aldo moro via fani 01
 

La logica di Yalta, dunque, esigeva che con la eliminazione fisica del leader democristiano venisse, di fatto, impedito che i comunisti italiani entrassero, sia pure in posizione subordinata, in un governo di coalizione occidentale. Una eventualità questa troppo pericolosa sul piano militare per gli Usa e devastante per la nomenclatura sovietica. Forse non avremo mai le prove documentali di tale occulta pianificazione, ma gli indizi sono tanti e crescenti.

E’ errato ritenere che la vicenda Moro si sia svolta nei fatidici “55 giorni”, sia iniziata il 16 marzo ’78 e finita il 9 maggio successivo, ma oltre settant’anni prima, come detto, a Yalta, in una lotta di spartizione planetaria, nel corso di una ‘battaglia’ tra i vincitori del secondo conflitto mondiale, in particolare tra Usa e Urss, perché si assicurassero gli equilibri anche per il futuro della martoriata Italia. Un Paese oggetto e soggetto a particolare attenzione per la sua posizione di spartiacque tra i due blocchi della c.d. “guerra fredda”, che di lì ad alcuni decenni avrebbe dovuto, con il delitto Moro, impedire la realizzazione del cosiddetto “compromesso storico” tra democristiani e comunisti.     

I Processi sin qui celebrati, insieme alle varie Commissioni Parlamentari, ci hanno consegnato una verità frammentaria come tale carente ma, ricca di indizi precisi e concordanti, di storica valenza. Indizi che fanno sì che nel sequestro del leader democristiano si intraveda l’avvio ad una ristrutturazione globale e ad una drammatica ridefinizione delle strutture di potere, anche celate, dello Stato italiano, caratterizzato da una lotta, solo apparentemente, senza quartiere tra Stato e Br, la cui parola d’ordine era “destabilizzazione stabilizzante”.         

Il Caso Moro non è un avvenimento di cronaca nera ma un vero e proprio dramma politico. Ridurlo a un atto esclusivamente criminale, significa non solo non aver compreso nulla, ma contribuire a fare in modo che non si comprenda nulla. E’ più equo, invece, ritenerlo un effetto collaterale della c.d. seconda guerra fredda, inquadrato, quindi, in una dimensione internazionale; dunque, una lettura più adeguata alla realtà.

Che le Br godessero delle attenzioni dei servizi segreti americani ed inglesi lo si intuiva. E man mano che cresce l’obiettivo dell’ingresso del Partito Comunista Italiano nel Governo diventa utile qualsiasi elemento che potesse incidere e fermare questo processo. Un movimento antagonista quello delle Brigate Rosse che a metà percorso fa la scelta della lotta armata avendo come obiettivi fino al 1978 magistrati, direttori delle grandi fabbriche, imprenditori e politici di secondo piano.

Quando sequestrano Moro, c’è il salto di qualità delle loro azioni ma, le Br cambiano aspetto, fisionomia: sono già state orientate, indirizzate e infiltrate. Infatti iniziano a subire condizionamenti a partire dal 1976, (con il supporto, appunto, della Gran Bretagna) quando le attenzioni su quello che stava accadendo in Italia diventarono molto più forti. Lo si desume dagli archivi inglesi, dove si parla di un’azione sovversiva che doveva essere messa in atto per interrompere il processo che stava avvenendo.

aldo moro strage via fani
 

Quando Moro nelle settimane precedenti al sequestro impone all’intera Democrazia Cristiana il passaggio dal compromesso storico al governo programmatico col PCI, e in prospettiva anche al governo di solidarietà nazionale e dell’alternanza, l’obiettivo era quello di ricostruire l’unità del paese, mai raggiunta dopo la fine della guerra. Era un obiettivo altissimo di cui erano consapevoli ovviamente Moro e Berlinguer, e pochi altri. E questo dava fastidio ai cosiddetti guardiani di Yalta, che fino ad allora si erano sempre rapportati con un paese che aveva perso la guerra, e che era controllato. Ricominciare a tessere i fili dell’unità nazionale significava per l’Italia l’assunzione di un ruolo diverso e da protagonista nel Mediterraneo. Moro è colui attraverso il quale si stava stabilizzando questo processo politico e la linea della fermezza durante il suo sequestro è l’ultimo colpo di coda dei guardiani di Yalta. E le Br non potevano essere che uno degli strumenti.

Gli ex brigatisti, decisi ad alzare il tiro e compiere il salto di qualità, affermano di aver studiato anche le abitudini di Fanfani e Andreotti, per poi prendere di mira Moro e decidere di rapirlo. Anche perché: Fanfani era già un notabile, (ridimensionato per il referendum sul divorzio e non più segretario della Dc), e Andreotti non era una figura politica degno di tal nome: è sempre stato un garante del potere. Esercitava quasi sempre il potere per gli altri, garantendo gli accordi. Uomo intelligente, furbo, diabolico che non ha mai pensato di essere un leader produttore di politica; non ha mai imposto il suo indirizzo, ma raccolto e garantito gli accordi fatti in altre sedi.

Moro invece era un creatore di politica, un uomo capace di far diventare importante il ruolo di Presidente del partito, carica che ricopriva al momento del sequestro e che fino a quel momento, di fatto, non aveva mai contato nulla.  Era un uomo moderato, un grande costruttore di consenso che si muoveva all’interno di un’epoca in cui i processi politici erano collegiali. Un fine esponente di quella Prima Repubblica che ha ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra. Divenuto, però, di troppo, scomodo e pericoloso.

Altro drastico mutamento delle Br lo si evidenzia a cavallo del falso comunicato brigatista del Lago della Duchessa, (18 aprile ’78). Dal testo di quel falso comunicato, (sulle prime ritenuto veritiero), si avverte che la direzione dell’intera vicenda è cambiata e si vuole dare, riuscendoci, un messaggio ben chiaro: una partita è finita, ne è cominciata un’altra. Da quel momento in poi non sono più gli obiettivi brigatisti che gestiscono le redini della vicenda, bensì la logica degli effetti collaterali della seconda guerra fredda.  

“I fatti che hanno portato all’uccisione di mio padre” dice l’ex senatrice Maria Fida Moro, “non sono un passato ma un presente”. ( …. ) “Ciò che riguarda le stragi, le convivenze e il male può assumere ogni genere di forma, è camaleontico. ( …. ) E’ vero che noi ne siamo corresponsabili, ma (…..)  quando si è in democrazia si è “corresponsabili di quello che succede e se non ce ne facciamo carico la democrazia ‘va a carte e quarantotto'.  “La democrazia”, aggiunge, “è una forma di governo molto difficile da gestire perché dipende tutto dal popolo. Per questo è sovrano; proprio perché è responsabile della democrazia che c’è nel Paese”. Ed afferma: “colgo l’occasione per dire una cosa: la Germania dopo il nazismo si è assunta tutta la responsabilità etica di quello che è successo anche quando le persone dicevano che erano colpevoli. Invece l’Italia non l’ha fatto, ha scelto una strada di minor resistenza scegliendo quella della “massoneria, della mafia e delle brigate rosse. Non è solo così”.

Ho vissuto per intero quel periodo. Parlarne è riviverlo negli aspetti più cruenti.

A decenni di distanza, compiendo simbolicamente dei passi a ritroso, sono solito domandarmi: “Cosa sarebbe stato per l’Italia (oggi l’Europa) se il disegno politico perseguito e portato avanti dall’allora Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana fosse stato realizzato? Trovo seria difficoltà nel darmi una risposta.

Con il sequestro del leader democristiano il mattino del 16 marzo ’78 si interruppe drasticamente e crudelmente un progetto con il quale lo statista pugliese da anni stava cercando di portare a compimento con il coinvolgimento nel governo del Paese, prima dei socialisti di Pietro Nenni, poi dei comunisti di Enrico Berlinguer. Si chiude, anche, la vicenda storica della Prima Repubblica, quindi, di quella classe politica che aveva caratterizzato le sorti del Paese nel secondo dopoguerra.

Restano, comunque, molti lati oscuri. Le inchieste effettuate, i processi celebrati sull’agguato di via Fani, a causa delle complicità, delle connivenze, sia a livello interno che internazionale, hanno solo in parte disvelato l’intricata matassa, difficile a dipanarla.

Le Commissioni d’inchiesta susseguitesi dall’81 in poi, hanno fatto del loro meglio, lasciando, però, delle inevitabili pendenze sempre con la speranza di affrontarle e risolverle. Quella appena conclusa nel dicembre 2017, è riuscita a fare emergere elementi concreti, fra i quali che: il rapimento e l’uccisione di Moro e dei militari di scorta non fu ad opera solo delle Br; la eliminazione di Moro dalla scena politica italiana di quel particolare contesto storico faceva comodo anche e, soprattutto, a molti Paesi ma anche e soprattutto a personaggi nostrani; l’individuazione di una sede vaticana ma “chiacchierata; che sarebbe stata sufficiente un’autovettura blindata per salvare il leader democristiano; ritenere epicentro della vicenda Moro il bar Olivetti in via Fani per l’assidua presenza di malavitosi. Di contro, scarso interesse se non del tutto disattesa la fatidica “seduta spiritica”, sottovaluta, invero, sin dalla sua nascita; il falso comunicato delle Br del 18 aprile ’78; l’individuazione del covo di via Gradoli n.96; l’arresto di Valerio Morucci e Adriana Faranda, ospiti della d.ssa Giuliana Conforto, nell’appartamento al quarto piano di via 47 di Viale Giulio Cesare a Roma,  nel maggio del ’79, figlia di Giorgio Conforto, responsabile del Kgb russo in Italia; il vero ruolo svolto da don Mennini; il dramma del Presidente della Repubblica Giovanni Leone intenzionato a graziare la brigatista Paola Besuschio ma contrastato dal segretario della Dc Zaccagnini che si permette di strappare il foglio della grazia già concessa (particolare mai affrontato e discusso in sede di Commissione parlamentare oltre che dalla stampa, ovviamente di regime). A chi attribuire le dimissioni anticipate da Presidente della Repubblica alle gratuite, infondate accuse per le tangenti che avrebbe riscosse da parte della Lockeed o all’insano gesto di Zaccagnini?

Di tale immane tragedia che segnerà sia l’Italia che il Popolo italiano, molti sono gli enigmi, le verosimiglianze, le contraddizioni, i vuoti che lasceranno segni indelebili. Le indagini nell’immediato presero il via ma, in contemporanea, si attivarono anche delle realtà finalizzate a depistare e deviare le indagini stesse, quindi, le iniziative atte a liberare Moro.

Dopo oltre quarant’anni il caso Moro è ancora aperto. La sua lezione e il suo messaggio politico restano di grandissima attualità in una stagione politica assai confusa ed incerta.

Quale ispiratore del Governo di Unità Nazionale avrebbe portato ad un accordo tra forze diverse: DC e PCI, ma il suo disegno politico era inviso alla Politica di Yalta, ai due schieramenti conservatori: USA e URSS che lo vedevano come nemico. Per questo e solo per questo fu rapito, per essere poi abbandonato da chi l’avrebbe potuto salvare.

I suoi verbali di interrogatori, dopo l’iniziale scoperta di una parte in via Monte Nevoso nella prima decade di ottobre ’78, furono ritrovati anni più tardi dietro un termosifone sempre nell’appartamento di Via Monte Nevoso dai militari del generale C.A. Dalla Chiesa, che trasferito a Palermo per combattere la mafia, fu a sua volta abbandonato e giustiziato con la giovane moglie in un modo orrendo. Faranno parte di una catena di delitti vincenti perché impuniti malgrado le apparenze.

Allora, come oggi, la posta in gioco era un grande compromesso non a caso definito ‘storico’ perché giocato come una carta nelle previsioni vincente nel conflitto fra Est ed Ovest.

L’apparato politico nostrano si illude oggi di rimediare nel celebrare gli anniversari connotati di imbrogli e insabbiamenti che fanno apparire i brigatisti come bravi ragazzi che avevano un po’ esagerato. Assistiamo, infatti, a tentativi per approdare ad una specie di compromesso inteso a distaccare l’Italia dal nucleo europeo.

Certo. I tempi sono diversi. La recente uscita del Regno Unito dall’Europa ha ricucito una grande alleanza anche commerciale fra i popoli di lingua inglese sulle due sponde dell’Atlantico, mentre in Europa l’Asse Parigi – Berlino comanda, ma pronto ad accogliere l’Italia in condizione di sicurezza. Per cui o dentro o fuori, senza mezze misure.

Oggi, come allora, più che evidente la disarticolazione del nostro Paese avvolto in una rete di compromessi su cui ruota il benessere, l’indipendenza. Allora finì male: Moro fu eliminato insieme al progetto che tutelava e sepolto sotto cumuli di ipocrisie e di menzogne cui fece seguito l’instaurazione di un sistema soprattutto di falsi storici che gestiscono le televisioni statali (non solo) e che manipolano conoscenza e memoria di chi a quei tempi non c’era, non sa e non saprà mai.

Leonardo Sciascia, (poi, anche membro della Commissione d’inchiesta parlamentare Moro 1), a pochissimi mesi dalla scomparsa del leader democristiano, nel pubblicare l’ “Affaire Moro”, lascia la più importante testimonianza con la quale attacca apertamente lo Stato, perché colpevole di non aver fatto tutto il possibile per salvare l’uomo politico.

Si continua a dire che il rapimento, la prigionia e l’uccisione di Moro rappresentano un episodio cruciale della cronaca del Paese e hanno reso il martirio dello Statista un fatto popolare ed emblematico. Ebbene, in attesa che la storia si pronunci nel giudicare i protagonisti, da una parte e dall’altra, soffermiamoci sulle parole di Adriana Faranda (anche lei postina brigatista della corrispondenza del prigioniero Moro), dette nel corso di una intervista: ”Il sequestro, gli agenti uccisi, la lotta fu tutto terrificante”. Non solo. Sempre riferendosi all’Affaire Moro, Fabrizio Cicchitto pone degli interrogativi, comprensibili, giustificativi da dolersene profondamente: “Ho fatto un errore di non partecipare alla Commissione presieduta da Fioroni per cui è possibile che la cosa mi sia sfuggita; ma non mi risulta che abbia invitato il Presidente Prodi a riferire. Nessuna persona può ancora credere che fu una seduta spiritica quella che diede il nome di Gradoli: a tanti anni di distanza Prodi potrebbe dire chi gli diede quell’indicazione. Un interrogativo che continuerà a porsi chiunque, anche quello delle generazioni a venire. Gli è precluso dalla presa di posizione del gelido Andreotti, dell’irrisoluto Zaccagnini, dell’ondivago Cossiga o del coltissimo Galloni? “Caro Prodi, ora devi dirci chi ti ha detto Gradoli”.

La teoria della fermezza, sarebbe superfluo spiegarla, servì  a coprire una prassi che divenuta poi evidente se la si paragona con quello che fu fatto per la liberazione del generale americano Dozier. Le modalità le conosciamo ma per Moro di tutto ciò nulla avvenne. Vergogna! Ritengo doveroso una puntualizzazione. La cosa incredibile però fu l’uso o meglio il non uso di quella indicazione che avrebbe consentito d’intervenire sin dall’inizio su un covo di straordinaria importanza, anziché recarsi inutilmente nel piccolo paese di Gradoli: idiozia o volontà di guardare da un’altra parte? Nella Dc che non ebbe mai esitazione furono Andreotti e Cossiga. Andreotti, gelido e disumano nel corso dell’intera vicenda, interessato solo a salvare il suo governo; Cossiga, perché dominato dalla “ragione di Stato”. Quale Stato?

Ancora oggi fa paura cercare risposte alle domande che quei 55 giorni sollecitano: come prevalse la linea della fermezza; perché la Dc e il Pci rimasero irremovibili sulla posizione del rigor mortis; perché i cosiddetti “amici” di Moro ben piazzati dentro la Dc non fecero nulla o ben poco per agevolare la sua liberazione; le culture politiche DC e PCI furono più all’altezza degli eventi? Non sarebbe il caso di scavare proprio in detto ambito senza riserve o scrupoli per capire e finalmente fare chiarezza?

Ma è il momento della dietrologia che, nella sua veste tridimensionale oltre ad essere un affare per l’industria editoriale, diviene un diversivo che consente di evadere i quesiti più imbarazzati, le responsabilità più pressanti. E La Commissione ne approfitta perché intervenisse la Scientifica della Polizia e il Racis dei Carabinieri. Ma i risultati sono stati eludenti, tanto da definire “Verità dicibile” quella cosiddetta di “comodo”, per contrapporsi, si fa per dire, a quella che non si è avuto il coraggio di svelarla e chiamarla “la verità indicibile”. Perché non includere tra quest’ultima le affermazioni dell’ex on.le  Gero Grassi, membro della Commissione, che, imitando Pasolini, che sapeva ma non poteva provarlo: “Sapevamo chi erano i colpevoli, ora abbiamo le prove”, non deferisce alla Procura della Repubblica?

Chi ha vissuto quell’epoca sa che la verità è stata taciuta e più di qualcuno se l’è portata nella tomba. All’insegna e nel rispetto della prassi si susseguono, negli anniversari, le commemorazioni anche del tutto strumentali. In occasione del quarantennale, alle corone deposte mani di scriteriati, di stupidi, con la scritta spray color nero, “A morte le guardie” ed una svastica, il 21 febbraio 2018 imbrattano la base di cemento della lapide commemorativa di Aldo Moro e della sua scorta, per poi, a distanza di un mese, il 22 marzo, deturpare con altra scritta oltraggiosa di colore rosso, BR, la lapide che commemora le cinque vittime dell’agguato di via Fani: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.

Ancora uno sfregio alla memoria che rinnova il dolore, scatena altra rabbia, suscita nuove ondate di indignazione e sconcerto. Ancora un affronto alla memoria e al simbolo che prova a rievocare vittime e carnefici di una pagina di storia che ha ancora tante note a margine da segnare che ancora suscita dolore e sgomento. Che ancora induce a porre tanti interrogativi. Un vilipendio naturalmente condannato subito come grave e inaccettabile dall’opinione pubblica e dai rappresentanti istituzionali.

“Un’azione vergognosa e un insulto per i tanti servitori dello Stato che hanno perso la vita per mantenere la schiena dritta alla democrazia di questo Paese” dicono i familiari delle vittime. "Ho la sensazione che, purtroppo, stiamo tornando a quei tristi anni di piombo. Temo che ci siano delle rivendicazioni: la violenza chiama violenza", dice Marco Falvella, Presidente dell'Associazione Internazionale Vittime del terrorismo. E aggiunge: "Non vedo un bel futuro. Si è riacceso lo scontro politico di quegli anni violenti e i social non fanno altro che fomentare la violenza. E, vedendo lo scenario politico di questi ultimi anni, credo che la politica debba fare di più per arginare la situazione prima che degeneri. Oggi è stata imbrattata la lapide di Moro, domani succederà su altre targhe”.

Di lassù gli spettri dei militari di scorta: Maresciallo Oreste Leonardi, Appuntato Domenico Ricci, Vice Brigadiere Francesco Zizzi, Agente PS Giulio Rivera, Agente PS Raffaele Iozzino e di quello di Aldo Moro continuano a chiedere giustizia, ma soprattutto verità. Una verità che questa cosiddetta “democrazia” priva di qualità continua a negare. Il caso, dunque, per tutti coloro che si ostinano a voler capire cosa è effettivamente è accaduto il mattino del 16 marzo ’78 in via Fani a Roma, rimane e continuerà, purtroppo, un mistero, un enigma. Eppure sono trascorsi decenni.

Qualcosa, però, continua a non tornare, a non convincere. Un impegno serio, solido, basato sulla lettura, studio, esame di tante carte, anche quelle provenienti da archivi dei Servizi e della polizia e de-secretate nel 2014, oltre, ovviamente, alla non poche testimonianze, alle analisi del Racis dei Carabinieri, alle informative diplomatiche per sentirci dire: “Il risultato è sconcertante”

Con buona pace della narrazione ufficiale, la vicenda Moro deve essere inquadrata in un contesto internazionale che di per sé connota la limitata sovranità nazionale: americani, sovietici, tedeschi orientali, jugoslavi, palestinesi, israeliani, Regno Unito e, ovviamente, settori del Vaticano. A pochi interessava la salvezza di Moro, ma a molti interessavano i verbali del “processo” e le lettere che uscivano dalla prigione del popolo.

Alla luce della Commissione, nello smantellare la versione ufficiale che per anni hanno voluto far crederci, è facile ravvisare un insieme di pressioni, ricatti, offerte, mediazioni, minacce, confidenti, complici giornalisti, malavitosi, sacerdoti, trafficanti d’armi, spioni di varia natura.

Un coagulo per non definirlo compromesso processuale tra imputati e Stato che si spera che La Procura faccia il proprio corso senza rifugiarsi nel cosiddetto “porto delle nebbie”.

Un gioco di specchi con tante porte girevoli su cui si è pensato di costruire dagli anni ’80 in poi una verità giudiziaria, quella di comodo, appunto, lontana da quella verità storica. Un abito su misura, non del tutto nuovo, ma utile alla bisogna. Indossato dai protagonisti del momento: Andreotti, Cossiga, Zaccagnini, Piccoli, Galloni ed altri. Moro, però, lo aveva capito e da tempo, tanto da non ritardare ad avvertirli: “Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti”. Una maledizione non certo un commiato.

Ci sarebbe molto altro da dire, ma mi fermo qui!”. 

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