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Social vietati ai minori in Australia, l'esperta va dritta al punto: "L'Italia dovrebbe fare lo stesso. E il perché è evidente"
Dopo la decisione australiana di vietare i social ai minori, Affaritaliani ha raccolto il commento della psicoterapeuta Maria Rita Parsi

Social e minori, Parsi: “Il problema non è solo la norma, ma la mancanza di educazione all’uso del virtuale"
L’Australia ha introdotto un divieto senza precedenti, imponendo alle piattaforme di bloccare gli account dei minori sui social e impedirne la creazione di nuovi. Su questo tema, Affaritaliani ha raccolto il commento della psicoterapeuta Maria Rita Parsi, in merito a una misura che sta facendo discutere a livello internazionale.
Dottoressa, l’Australia ha vietato i social ai minori di 16 anni. L’Italia dovrebbe fare lo stesso?
"Sì, assolutamente. La decisione del governo australiano è, a mio avviso, un precedente importantissimo che spero venga seguito da molti altri Paesi. L’uso smodato e pervasivo del virtuale sta producendo – come ormai conferma la ricerca scientifica – effetti devastanti sul cervello dei più giovani.
Già nel 2009 avevamo lanciato un allarme: il virtuale rischia di creare dipendenze mentali, spingendo i ragazzi a delegare a Internet soluzioni, immaginario, informazioni. Oggi, attraverso telefoni e tablet, i minori assorbono immagini crude, violente, non filtrate, senza alcuna tutela. Si espongono e vengono esposti a contenuti che non sono in grado di elaborare, mettendosi in scena o osservando dinamiche distruttive che influenzano profondamente la loro crescita emotiva."
Alcuni esperti propongono di vietare smartphone, social e chatbot IA sotto i 16 anni. Secondo lei qual è l’età giusta per accedere a queste tecnologie?
"L’età indicata dagli esperti è ragionevole, ma il punto non è solo fissare un limite. Si può anche stabilire un divieto a 16, 18 o addirittura 20 anni: se non c'è un’educazione all’uso virtuoso del virtuale, il divieto diventa inefficace. Gli adolescenti cercano sempre di aggirare ciò che è proibito, e infatti l’esperienza ce lo mostra. È fondamentale che alla norma si affianchi una formazione chiara e continua: non si può pensare che un divieto venga rispettato se non ne viene compreso il senso.
La scuola dovrebbe essere il primo luogo deputato a questa educazione, insieme alle realtà aggregative e soprattutto alla famiglia. Ma qui nasce un problema: molti adulti non sono formati. Consegnano un telefono ai figli senza sapere come usarlo in modo proporzionato, e se un adulto non è educato al digitale, non potrà mai educare un ragazzo."
Negli USA alcuni adolescenti sviluppano legami affettivi con chatbot. Quanto è preoccupante?
"È molto preoccupante. L’intelligenza artificiale può rispondere come se fosse un interlocutore reale, con competenza e immediatezza, ma manca completamente la relazione. Molti giovani delegano all’IA compiti, scrittura, ricerche, ma è una delega costante che riduce l’allenamento mentale, la creatività, la capacità di immaginare.
L’IA non prova emozioni, non conosce la nostra storia personale, non è in grado di restituire la complessità del sentire umano. È una massificazione dell’emotività, tutto viene appiattito e quando un ragazzo in crescita si affida a un interlocutore sempre accondiscendente, rischia di perdere la capacità di gestire conflitto, frustrazione, sfumature relazionali. Questo è il punto più delicato: l’IA può offrire informazioni, ma non potrà mai sostituire la dimensione affettiva dell’essere umano."
L’Italia ha norme molto blande e il peso ricade su famiglie e scuole. Siamo attrezzati per proteggere i minori?
"No, non lo siamo. In Italia c’è un enorme “fai da te”. A differenza dell’Australia, non esiste una cornice normativa chiara, e il controllo viene demandato quasi interamente alle famiglie. Ma spesso gli adulti usano il virtuale nello stesso modo dei ragazzi, senza consapevolezza, per questo un limite è necessario. Ma il problema non è solo la norma, è la mancanza di educazione all’uso del virtuale. Senza una formazione adeguata, il divieto da solo non basta
I nativi digitali crescono dentro le tecnologie, conoscono piattaforme e dispositivi meglio degli adulti. Questo squilibrio rende impossibile un’educazione credibile. La verità è che manca una formazione strutturata per genitori, insegnanti ed educatori: un adulto che non è formato non può formare un minore.
Senza un investimento serio sulla cultura digitale, nessuna norma potrà realmente proteggere i giovani."
