Culture
A breve si scoprirà la cinquina del Premio Strega 2025: vi raccontiamo i dodici romanzi in gara
I libri rientrati nella dozzina e le interviste agli autori: lo speciale di Affaritaliani.it sul Premio Strega 2025

10) Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol (TerraRossa)
Con Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, pubblicato da TerraRossa e vincitore dei premi Berto e Megamark 2024, Michele Ruol entra nella narrativa italiana con un’opera di struggente profondità, capace di dare forma all’assenza attraverso una prosa nitida, composta e spietatamente essenziale. Il romanzo, proposto al Premio Strega da Walter Veltroni, racconta la frattura irrimediabile generata dalla perdita improvvisa di due figli, Maggiore e Minore, lasciando che siano gli oggetti a svelare, pezzo per pezzo, ciò che sopravvive all’incendio della vita.
Madre e Padre – mai chiamati per nome, ma designati attraverso ruoli universali – si muovono fra le rovine domestiche in cerca di un senso, interrogando ciò che resta: mobili, suppellettili, tracce di quotidianità divenute reliquie. La narrazione procede per frammenti, alternando passato e presente in una tessitura temporale fluida, con una struttura divisa in due sezioni speculari, Casa e Automobile, in cui 99 oggetti fungono da catalizzatori emotivi. Ogni reperto racconta un segmento di esistenza, svela relazioni infrante, desideri celati, conflitti latenti.
Ruol, medico anestesista e drammaturgo, scrive con la precisione chirurgica di chi ha familiarità col limite fra la vita e la sua sospensione. La sua è una lingua priva di orpelli, costruita sull’equilibrio fra evocazione e pudore. I suoi protagonisti, devastati dalla tragedia, affrontano percorsi divergenti: lui si spegne nella paralisi, lei risorge dalla cenere come una pianta di corbezzolo, emblema di resistenza e rigenerazione. L’autore non indugia sul trauma, ma lo esplora nella sua eco: il dolore non viene esibito, bensì scolpito nei silenzi, nei vuoti che gli oggetti custodiscono come custodi muti di ciò che fu.
Nel romanzo, la memoria non è mai nostalgica, bensì archeologica: come un paziente scava tra detriti affettivi, l’inventario diventa mappa interiore. Ogni oggetto evoca frammenti di una felicità smarrita, e insieme conduce i genitori verso una difficile, ma possibile, forma di sopravvivenza. In filigrana, si legge una riflessione più ampia: quella sul ruolo del lutto nella costruzione dell’identità e sull’impossibilità di tornare com’eravamo prima della perdita.

Opera prima che sfugge a ogni categoria, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è una meditazione sull’amore che sopravvive al disastro, sulla resilienza silenziosa che si annida nei gesti minimi, nella forza invisibile del ricordo. È una scrittura che non consola, ma accompagna, che non chiude il dolore, ma gli dà voce attraverso ciò che resta quando tutto sembra perduto.

Intervista all’autore
Nella dozzina del Premio Strega al suo esordio in narrativa. Cosa si augura per lei e per il romanzo, a partire da questa esperienza?
“Sono molto grato a Walter Veltroni, che ha incontrato questo romanzo da Presidente della giuria del Premio Campiello. Sinceramente non immaginavo che l’avrebbe preso a cuore al punto da proporlo allo Strega, né tantomeno che il libro sarebbe poi entrato in dozzina, soprattutto considerando la qualità e la quantità delle opere proposte. Vivo questo momento con grande gioia e gratitudine e mi auguro che il premio possa essere occasione di incontro e confronto con nuovi lettori e con gli altri autori”.
Quanto la sua professione di medico-anestetista ha influito nella scelta del soggetto e della storia, che vedono al centro la morte e il lutto?
“La morte e il dolore sono due grandi rimossi della nostra società, due tabù. Una volta si moriva in casa, la morte era una delle fasi della vita; oggi invece questo avviene sempre più raramente, ed è come se la morte fosse stata eliminata dalla vita. Facciamo di tutto per negarla, tanto che diventa difficile perfino parlarne. Spaventa, allontana.
La morte – e il dolore – però sono aspetti della vita con cui, da anestesista, mi confronto spesso: questo romanzo nasce dalle domande senza risposta che come medico mi porto a casa a fine turno. Come si sopravvive al dolore? C'è un senso alla sofferenza? La scienza ha dei limiti: a queste domande non troverà mai risposta. La strada che provo a percorrere io è quella di cercarle nell’arte, nei romanzi che leggo, e nella scrittura”.
Come in altri romanzi di questa dozzina, viene posta l’attenzione sulle mancanze dei genitori nei confronti dei figli, sulla famiglia disfunzionale e su quanto una certa rigidità possa poi danneggiare la crescita dei figli e il loro rapporto con i genitori. Pensa che sia cambiato il modo di essere genitori oggi rispetto a qualche decennio fa?
“Per me la famiglia è l’unità minima, il grado zero delle relazioni, il posto in cui siamo noi stessi fino in fondo, con le nostre miserie, i nostri segreti, le nostre debolezze, le nostre gioie inconfessabili. Soprattutto, le dinamiche che mettiamo in atto lì sono le stesse che ritroviamo quando aggreghiamo le famiglie in condomini, e poi città, nazioni, continenti: parlare di famiglia non è un modo per chiudersi al mondo esterno, ma per capire come funzionano i suoi ingranaggi.
La società in cui viviamo è disfunzionale, perché sono disfunzionali le famiglie che la compongono. Allo stesso modo quella di oggi è una società in evoluzione tumultuosa, sicuramente diversa rispetto a quella di decenni fa, certamente più consapevole e attenta a certe dinamiche, e non per questo immune da errori – nuovi o reiterati. Ma ancora, per comprenderla tocca tornare lì, alle famiglie frastagliate che la compongono – raccontarne l’intimità, la fragilità, la speranza: è quello il brodo primordiale da cui tutto prende forma”.