Culture
A breve si scoprirà la cinquina del Premio Strega 2025: vi raccontiamo i dodici romanzi in gara
I libri rientrati nella dozzina e le interviste agli autori: lo speciale di Affaritaliani.it sul Premio Strega 2025

11) Quello che so di te di Nadia Terranova (Guanda)
Quello che so di te, pubblicato da Guanda, è un’opera in cui Nadia Terranova compone un raffinato intreccio di autobiografia e indagine genealogica, cucendo insieme i fili lacerati della propria storia familiare. Il romanzo, immerso nella luce lattea di una Messina immaginifica e reale, si configura come un viaggio attraverso i luoghi della psiche e della discendenza, nel tentativo di ridare volto e voce a Venera, bisnonna internata nel manicomio cittadino.
L’architettura narrativa è volutamente obliqua, discontinua, sospesa tra il diario personale, l’esplorazione storica e il resoconto affettivo. La scrittura, incandescente e misurata, alterna confessione e riflessione, frammenti lirici e illuminazioni saggistiche, mentre la protagonista – madre e figlia a sua volta – si muove tra echi remoti e verità sepolte. Ogni passo nella ricostruzione dell’esistenza di Venera si confronta con le omissioni della “Mitologia Familiare”, quel sedimento di racconti tramandati, alterati, smussati, a tratti reinventati.

Il cuore del libro pulsa attorno alla consapevolezza che la follia non è concetto astratto, ma presenza ancestrale e concreta, eredità temuta e, forse, ineludibile. La maternità si impone come spartiacque e detonatore: dopo la nascita della figlia, la narratrice sente che non può più permettersi la fragilità. Da qui l’urgenza di comprendere cosa accadde davvero quel giorno in cui Venera varcò il portone del Mandalari.
Terranova costruisce un’epopea intima, dove lo sguardo si fa doppio: la donna che scrive e la donna di cui si scrive si osservano a distanza di decenni, complici e ignare. È in questa duplicità che si annida la potenza del testo, capace di farsi specchio di un’intera condizione femminile, compressa fra conformismo e ribellione. Eppure, accanto alle madri, si stagliano anche figure maschili, come il marito di Venera, costretto a guardarla dallo spioncino, emblema di un amore ridotto a osservazione muta.
Il romanzo non elude i nodi oscuri della psichiatria italiana, ma li affronta con rigore e sensibilità. Venera non è soltanto un caso clinico, ma una persona mutilata di diritti e identità in nome di una scienza che, al tempo, preferiva il controllo alla cura. L’autrice interroga medici, scava negli archivi, ascolta voci sopite per decostruire un passato scomodo e restituire dignità alle sue ombre.
Attraverso un’alternanza di registri e di livelli narrativi, Terranova spezza e ricompone il racconto, lasciando emergere ciò che la lingua ufficiale non sa dire. La memoria, più che nostalgia, diventa campo di battaglia, terreno in cui il dolore si trasfigura in conoscenza. Non c’è resa, ma un tentativo ostinato di comprendere.
Quello che so di te è un libro che interroga, attraversa, brucia. Una narrazione intessuta di umanità, dove la letteratura si fa strumento per decifrare l’enigma delle origini e per riconciliarsi, finalmente, con ciò che resta del passato.

Intervista all’autrice
Dopo Addio fantasmi torna ad essere in competizione allo Strega a distanza di diversi anni, con ottime probabilità di vittoria. Come è cambiata Nadia in questo periodo?
“In questi anni è nata mia figlia e io sono nata almeno altre cento volte come scrittrice e come persona. Si rinasce a ogni cominciamento e, come scriveva Pavese, «l'unica gioia al mondo è cominciare». Poi ogni sette anni si rinnovano le cellule, quindi direi che sono quasi del tutto una persona nuova, no? Eppure c’è qualcosa che rimane uguale, sottopelle, che poi è quel nucleo incandescente che ci attraversa intatti dalla nascita, dall’infanzia, fino all’ultimo attimo e direi anche dopo, è la traccia che resterà di noi”.
Il suo romanzo tratta la malattia psichiatrica, la follia e il memoir, centrando in pieno tutti i temi principali di questa edizione. Come mai, a suo parere, oggi è tornato così tanto interesse attorno alla questione dell’alienazione e del disagio psicologico?
“C’è sempre meno stigma sociale, il lessico psichiatrico si è trasformato, i ghetti manicomiali sono stati chiusi e l’integrazione proposta dai centri diurni ha abolito l’idea di confino dell’individuo per lavorare sulla relazione con la società, sulla scorta della rivoluzione avviata da Franco Basaglia.
C’è ancora moltissimo lavoro da fare, ma la cesura con la psichiatria ottocentesca è netta, un’altra strada è stata tracciata e abbiamo bisogno di parole e storie che la attraversino, con tutti i linguaggi, anche quello artistico e letterario.
Il suo modo di raccontare la maternità è bello perché vero, non edulcorato. Non soltanto per quanto riguarda la sua bisnonna, ma anche la sua esperienza personale. Quanto è importante uscire dai canoni di un racconto stereotipato della maternità?
“Gli stereotipi sono nati perché storicamente a parlare di maternità non sono state le donne, ma gli uomini: scrittori, filosofi, giuristi, medici, ginecologi...
Il femminismo del secolo scorso ci ha portato una grande consapevolezza: la nostra storia deve ricominciare dal racconto di sé, dalla riappropriazione delle nostre esperienze, anche quelle del corpo, e non riguarda solo le madri ma le donne, tutte.
Se partiamo dai racconti, dalla pluralità di esperienze, e le accogliamo nelle loro differenze, nella varietà delle voci che per troppo tempo sono rimaste al margine, allora non ci sarà nessuno stereotipo ma un bellissimo canto corale”.