Culture
A breve si scoprirà la cinquina del Premio Strega 2025: vi raccontiamo i dodici romanzi in gara
I libri rientrati nella dozzina e le interviste agli autori: lo speciale di Affaritaliani.it sul Premio Strega 2025

3) L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli)
Con L’anniversario, Andrea Bajani consegna un romanzo tagliente e misurato, capace di affrontare uno dei pochi tabù ancora intatti nella narrazione contemporanea: il distacco irrevocabile dai propri genitori. Pubblicato da Feltrinelli e proposto al Premio Strega 2025 da Emanuele Trevi, il libro rompe il silenzio su una forma di emancipazione che ha il sapore dell’eresia, ma anche della salvezza.
Dieci anni separano il protagonista dalla sua ultima visione dei genitori. Un decennio di silenzio scelto, di oceani messi in mezzo, di numeri cancellati e case abbandonate. Un’assenza assoluta, che non chiede né vendetta né perdono, ma diventa il fondamento di una nuova identità, finalmente libera di respirare.
Bajani racconta questa scelta senza cedere a derive patetiche o accusatorie. Lo fa con una prosa precisa, essenziale, intima. La sua è una voce che non alza mai il tono, ma colpisce con la forza del non detto, del sottinteso che lacera. La famiglia ritratta nel romanzo è un sistema chiuso, dove amore e controllo si sovrappongono, dove la madre si consuma nel desiderio di esistere solo attraverso lo sguardo del marito, mentre il padre impone la propria presenza come un dominio, una sentenza.

In questa prigione domestica, ogni apertura verso l’esterno – una chiamata, un’amicizia, un contatto scolastico – viene percepita come un’intrusione e presto espulsa. Il figlio cresce nel vuoto relazionale, ma anche nella resistenza silenziosa, finché quel desiderio di rinascita, a lungo covato, esplode nella decisione definitiva di voltarsi e non tornare più indietro.
Il testo è attraversato da una lucidità che non lascia scampo. Non ci sono riconciliazioni, né illusioni. Solo la constatazione che in certi casi l’unica via d’uscita passa per la rottura. Una ferita aperta, ma fertile. Come nota Emmanuel Carrère, «il libro possiede una “scandalosa calma”, una compostezza che amplifica il trauma invece di attenuarlo».
Non è un’opera sul dolore, ma sulla sua trasmutazione in consapevolezza. Con l’arte raffinata dello scavo interiore, Bajani costruisce una narrazione dove l’esperienza privata si fa specchio collettivo. La sua scrittura si nutre di sottrazione, elegge la semplicità come misura di verità e restituisce alla letteratura il compito di dire l’indicibile.
L’anniversario non giudica, non assolve. Racconta. E nel farlo, ci ricorda che, a volte, per sopravvivere è necessario voltare le spalle a ciò che ci ha generati.

Intervista all’autore
Seconda esperienza al Premio Strega. Sono diverse le aspettative e il modo di vivere la competizione?
“È diverso il mondo in cui viviamo, soprattutto. Il 2021, l’anno post pandemico, era l’anno successivo al tragico marzo del 2020. E andavamo verso un’estate di fiducia, pur se guardinga. Si cominciava ad aprire, in Italia, le persone provavano il sentimento di un ritorno a ciò che avevano.
L’autunno successivo ci sarebbe stato un nuovo picco, ma quell’estate c’era un sentimento di, anche se cauto, sollievo. Andammo in giro così, con lo Strega. E insomma, non dico che fosse una festa, ma stava dentro un’idea di comunità che si ritrova, con i libri che tornano all’idea originaria: portare le storie alla gente, nelle piazze, nelle case.
Il 2025 è un anno molto cupo, il mondo è segnato da conflitti devastanti che non accennano, nonostante le tante parole in merito, a placarsi. C’è un radicalizzarsi della violenza, sia sul versante geopolitico sia nella società più in generale. Lo si percepisce dovunque, a qualsiasi latitudine.
Ecco, in questo contesto lo Strega 2025, l’esperienza che comporta, assume ai miei occhi una dimensione civile, di atto di civiltà e in qualche misura di resistenza. Portare i libri nelle piazze, nelle case, significa opporre civiltà alla violenza, complessità alla semplificazione. È questa la competizione in gioco: la civiltà del pensiero contro la violenza generalizzata”.
È molto interessante, in questo suo romanzo, il racconto di quella che a tutti gli effetti può essere raccontata come una forma di violenza familiare, senza che però si arrivi quasi mai alla violenza fisica, per lo meno non in forme gravi, a parte sporadici episodi. Eppure siamo ancora abituati a pensare che laddove non ci siano schiaffi e ricoveri in ospedale non c’è vera violenza. È così? Come definiresti la violenza, anche in base alla tua personale esperienza?
“La violenza è la privazione, attraverso l’uso della forza, della libertà altrui. Questo è violenza, molto semplicemente. E la violenza si serve di vari strumenti. L’intimidazione, cioè l’allusione alle conseguenze che potrebbero derivare dal sottrarsi al volere della persona violenta, è uno degli strumenti. La manipolazione, cioè l’estorsione di comportamenti non voluti attraverso un sottile, seduttivo, insieme di atti e parole, è un altro degli altri modi con cui la violenza si esercita.
Ma troppo spesso vengono considerati modi normali, nelle famiglie come nella società. La minaccia, velata o esplicita, è accettata come una dinamica ordinaria. E non può esserlo. La letteratura ha questo potere, di trasformare l’ordinario in straordinario. Direi proprio che è questo il suo specifico. E allora, entrare nelle dinamiche di una famiglia con il sondino della letteratura significa far vedere quanto a volte spaventosi e allarmanti possano essere comportamenti che spesso noi non notiamo. Quanto sintomatici di un quadro più grosso e complicato”.
Nel libro usi più volte il termine patriarcato. C’è chi ritiene che non esista più il patriarcato nei Paesi occidentali. Secondo te è così?
“La ripetizione dei termini porta sempre a un sentimento di usura del loro significato. Li si ripete, li si strattona, diventano titoli di giornali, cominciano a essere usati a sproposito, o usati strumentalmente. Così succede a molte parole. Pensiamo negli anni a un termine come flessibilità.
Ad ogni modo, proviamo a dimenticare per un secondo la parola patriarcato. E allora diciamola così: esiste una legge non scritta – e per me inaccettabile – che prevede il dominio del maschio nelle famiglie e nella società. Seconda quella legge non scritta, e inaccettabile, questo dominio può determinare l’uso della violenza, senza che questo comporti lo scandalo di nessuno.
Esiste una lunga consuetudine – inaccettabile, ancora – che prevede la subordinazione della donna all’uomo sulla base di un diritto di genere. Questo esiste, esiste troppo, ed è una forma di violenza. Lo vogliamo chiamare patriarcato? Non piace? È una violenza di genere. Il narratore, maschio, di L’anniversario compie un gesto chiaro: rifiuta questa eredità di genere (l’eredità patriarcale), provando un’altra strada”.