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Culture
Hollywood è a corto di cattivi: cinema, soft power e censura tra Usa e Cina

Sono passati decenni da quando Charlie Chaplin si prendeva gioco di Hitler ne Il grande dittatore a pochi mesi dall’invasione della Polonia. Decenni che hanno cambiato gli equilibri geopolitici mondiali, trasformando l’industria cinematografica in uno strumento diplomatico che gli Stati Uniti devono usare con sempre più attenzione.

I film patriottici di Hollywood sono infatti tipicamente caratterizzati da una netta divisione dei ruoli: i buoni della vicenda sono gli Stati Uniti, i cattivi i loro avversari nel mondo reale. Dai nazisti ai sovietici, per anni e anni non ci sono mai stati problemi per gli studios che hanno espresso posizioni anche estreme nel dipingere gli antagonisti, soprattutto perché gli Usa potevano vantare una leadership economica e culturale senza rivali.

Ma i tempi sono cambiati e non sono più gli Usa a scrivere le regole del gioco, anzi, della sceneggiatura.

I delicati equilibri tra Russia, Iran, Cina, Corea del Nord e Stati Uniti

Oggi Washington compete a livello geopolitico con Russia, Corea del Nord e, soprattutto, Cina, paesi con una forte identità nazionale e una ancora più forte determinazione nel difenderla. Inimicarsi questi stati, anche dipingendoli negativamente nei film, significa esporsi a seri rischi.  

Uno dei più temuti sono gli attacchi hackher, come quello di cui fu vittima la Sony Pictures nel 2014, in occasione dell’anteprima di The Interview, un film satirico sul leader Kim Jong Un. Il governo nordcoreano aveva lanciato un duro avvertimento, dichiarando di considerare la proiezione del film "un atto di guerra". Così, alla sua distribuzione sono seguiti attacchi informatici e furti di dati ai danni della Sony. Che i reali responsabili fossero i nordcoreani non è mai stato provato, ma ciò non ha impedito alla casa produttrice di ritirare il film dalle sale, che a loro volta erano state minacciate di attentati se lo avessero proiettato.

The interview
 

Hollywood e il mercato cinese

Un problema enorme riguarda poi l’aspetto finanziario. I film hollywoodiani sono, o dovrebbero essere, macchine da soldi: gli studios investono milioni di dollari nella loro produzione, per poi guadagnarne molti di più dalla loro distribuzione, sfruttandone al massimo il merchandising. Il punto è che ormai la Cina è a un passo dal diventare il maggior mercato per i film statunitensi. Di recente, per esempio, film come Avengers: Endgame (Marvel Studios), Spider-Man: Far from Home (Columbia Pictures, Marvel Studios, & Pascal Pictures), o Fast & Furious: Hobbs & Shaw (Seven Bucks Production & Chris Morgan Productions), tutti del 2019, hanno incassato più soldi in Cina che in patria.

E se fino al 2018 Hollywood dominava la top 10 dei film che avevano guadagnato di più in territorio cinese, oggi, nella classifica dei 25 film più redditizi della storia della nazione, è presente con appena 7 titoli, uno solo dei quali nelle prime dieci posizioni (Avengers: Endgame con 614 milioni di dollari).

Questo cambio di marcia è motivato anche dal fatto che il cinema cinese sta acquisendo sempre più qualità, conquistando gli spettatori con contenuti validi e tecniche di lavorazione all’avanguardia. Per esempio, al blockbuster made in Usa del 2014 Transformers: Age of Extinction, che in Cina ha incassato 320 milioni di dollari, Pechino ha risposto l’anno dopo con Monster Hunt – Il regno di Wuba (coprodotto con Taiwan), un misto di live action e animazione digitale che ne ha raccolti 385.

L’attrice Bahie Bai al Festival del cinema di Berlino durante la presentazione di Monster HuntL’attrice Bahie Bai al Festival del cinema di Berlino durante la presentazione di Monster Hunt
 

Il coronavirus, poi, potrebbe stravolgere la situazione e tutte le aspettative. Mentre infatti la Cina sta gestendo il post emergenza senza grosse ricadute e ha riaperto le sale cinematografiche a metà maggio, gli Stati Uniti sono attualmente al secondo posto mondiale per casi, con contagi in crescita, ancora lontani dalla stabilità sanitaria ed economica. Insomma, sembra che Hollywood avrà sempre più bisogno del mercato cinese, mentre la Cina ne avrà sempre meno dell’industria cinematografica statunitense.

Tibet, Hong Kong, Taiwan e altri tabù

In tutto questo, la corsa a compiacere il nemico ha subìto un’accelerazione nell’ultima manciata di anni, ma è in corso da molti di più. Qualcuno ha fissato il 1997 come data spartiacque, quando cioè uscirono tre film che toccarono nel vivo la politica interna cinese: Kundun, diretto da Martin Scorsese, Sette anni in Tibet, con protagonista Brad Pitt, entrambi sulla questione tibetana, e L’angolo rosso, con Richard Gere, centrato sul sistema giudiziario cinese. Nessuno di questi venne distribuito in Cina, attori e registi vennero inseriti in una “lista nera” e alle case di produzione fu proibito di intraprendere altri affari nel paese per i cinque anni successivi.

E così il Tibet, che negli anni Novanta era argomento ricorrente nelle produzioni statunitensi, oggi vi compare raramente, così come Taiwan, Hong Kong e il Dalai Lama restano argomenti tabù. Ugualmente, non c’è traccia delle vicende di Tienanmen: un massacro che ha segnato la storia mondiale, ma a cui Hollywood non ha mai dedicato neanche una pellicola.  

Produttori, sceneggiatori e registi hanno imparato in fretta la lezione: per non perdere soldi, contatti e opportunità, è meglio sacrificare creatività e aderenza storica, apportando tagli e modifiche dove richiesto. O anche non richiesto, considerato che gli interventi di censura vera e propria sono ormai pochi: per lo più si sa già quali argomenti sono da evitare e come è meglio agire, praticando quindi una vera e propria autocensura. Così come note sono le possibili ripercussioni.

Hollywood e la censura in Cina

Non c’è solo il divieto di distribuzione del prodotto sul mercato cinese, infatti, ma anche altre e sottili rappresaglie che possono costare care: il nulla osta alla proiezione in date scomode, cioè lontane dalle festività e quindi dagli incassi più consistenti, oppure in date molto distanti dal lancio nel resto del mondo, così che l’entusiasmo per il film sia già passato e il mercato nero abbia già provveduto a metterne in circolazione copie piratate (in altre parole, togliendo guadagni alla distribuzione legittima), il numero delle sale autorizzate a proiettare il film, oppure la distribuzione contemporanea a un prodotto concorrente.

Sette anni in TibetUn fotogramma dal film Sette anni in Tibet
 

All’opposto, per chi collabora con le istituzioni, sono previsti incentivi, finanziamenti e facilitazioni. In entrambi i casi, tuttavia, non è mai presente documentazione scritta che ufficializzi le richieste di tagli o adattamenti, o le intenzioni dietro alle decisioni prese. Certo, nel 2016 il Congresso nazionale del popolo ha approvato una legge di regolamentazione della censura cinematografica che prevede diversi gradi di penalità per i film che, tra le altre cose, contravvengono alla costituzione o rappresentano un pericolo per la sicurezza nazionale o per la coesione sociale, ma è un calderone in cui potrebbe rientrare di tutto, a seconda dei pretesti.

E tuttavia anche questa è un’arma che Pechino sa maneggiare molto bene: la fluidità delle direttive non scritte, l’impossibilità di fissare un canone valido sempre e per tutti, lasciando dubbi e incertezze che creino un clima di prudenza da cui nascano prodotti di compromesso, che non osino e non disturbino.

Pen America, un’organizzazione no profit che si batte in difesa della libera espressione negli Stati Uniti e nel mondo, ha provato a mettere in chiaro queste dinamiche ma si è dovuta confrontare con l’assenza di documentazione scritta e con la ritrosia di Hollywood a esprimersi pubblicamente a riguardo. Se le maggiori case di produzione non hanno rilasciato commenti, un produttore che ha voluto restare anonimo ha dichiarato che per la sua categoria “è impossibile parlare di Cina senza il timore di perdere il lavoro”.

Allo stesso modo, uno sceneggiatore a cui, non molto tempo fa, era stato chiesto l’adattamento cinematografico di un famoso videogioco di guerra, nell’impossibilità di menzionare la Russia, né la Cina, né la Corea del Nord, né l’Iran, si è ritrovato a chiudere la questione constatando che “siamo a corto di cattivi”.

 

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