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Culture
“Ogni vita merita una storia, ogni storia la vita”

 

“Una scrittrice per immagini.” Così si potrebbe definire Melania G. Mazzucco, scrittrice e sceneggiatrice (oltre che in letteratura italiana è anche laureata al Centro Sperimentale di Cinematografia.) Una scrittura la sua che  fa “abitare” i mondi e le epoche che racconta. Intellettuale che scava nella storia e nell’arte a caccia di talenti misconosciuti che valorizza con affascinati romanzi storici. Scrittrice pluripremiata in Italia e all’estero: si è aggiudicata il premio strega per “Vita”, romanzo che negli States è stato incluso da Publisher Weekly tra i migliori dieci romanzi dell’anno non in lingua inglese. Vanta una carriera costellata di successi letterari, fra cui  “L’architettrice”, la sua ultima fatica letteraria, pubblicata nel 2020, che ha vinto il Premio Alassio Centolibri per L’Europa ed il premio Stresa. L’abbiamo intervistata per conoscere meglio la sua passione per la scrittura e l’arte.

 

Architettrice. Il nome dice tutto. Suona strano ed affascinante oggi che decliniamo le professioni al femminile cambiando solo la A finale. Può essere una rivoluzione del linguaggio?

La rivoluzione è già avvenuta – anche se ancora a lungo dovrà proseguire. La lingua è più conservatrice, come il diritto. Assimila con lentezza e quasi di malavoglia i cambiamenti della società e delle strutture mentali, e si adegua sempre in ritardo. Il sostantivo femminile “architettrice” esisteva già nel 1663, quando lo utilizzò Plautilla: il fatto che ancora nel XXI secolo le donne architetto usano per se stesse il genere maschile (o al massimo quella ‘a’) fa capire quale occasione si sia perduta. Architettrice è parola molto più elegante che architetta: il suffisso –trice valorizza non solo il femminile ma l’aspetto creativo della professione (la maggior parte dei femminili artistici sono in –trice: scrittrice, pittrice, attrice, scultrice etc).    

E’ stata definita dai critici “Architettrice” della letteratura moderna italiana. Che ne pensa?

La definizione mi onora. E l’idea che i romanzi – e quindi anche i miei romanzi - siano architetture, edifici, cattedrali, labirinti ha una sua verità. Tuttavia quando scrivo non uso gli strumenti e le tecniche dell’architettura, anzi in un certo senso non potrei essere più lontana. Scavo le fondamenta, ma non disegno, per esempio – nel senso che non preparo una pianta (la struttura, l’articolazione dei capitoli), né calcolo le misure (la lunghezza). E costruisco piuttosto secondo un criterio organico. Movimenti sismici sussultori e ondulatori, inondazione, erosione. O perfino biologico. Seme, radice, germoglio, fioritura, frutto.

Prima Marietta, poi Plautilla. Lei ha la vocazione, come una sorta di “archeologa dell’arte”, per la riscoperta di artiste misconosciute al fine di riportarle alla gloria che meritano…

Amo l’indagine, l’esplorazione – del passato, ma anche del presente, e perfino del futuro. Quindi senz’altro sono un’“archeologa”, ma viaggiatrice credo sia il termine più appropriato. Ho sempre amato avventurarmi in territori oscuri – ignoti a tutti o anche solamente a me. Alla ricerca di persone, o personaggi, di cui sono perse le tracce, o sono rimasti frammenti dispersi – il nome nel libro di un altro, un’opera, qualche oggetto o reperto. Non solamente pittrici: penso ad Annemarie Schwarzenbach, la fotografa, giornalista e scrittrice protagonista di “Lei così amata”, o anche ai miei antenati emigranti in America all’origine di “Vita”. Ogni vita merita una storia, e ogni storia la vita. E’ la sindrome di Orfeo: discendere nel buio della morte – della perdita - per recuperare Euridice (chiunque essa sia). Che Orfeo trova, ma subito perde - poiché il vivo e la morta vivono ormai in due dimensioni e tempi diversi, come l’autore e i suoi personaggi. Può portarla con sé davvero solo con il suo canto – con la scrittura, quindi.

Entrambe hanno come mentore la figura paterna. C’è un nesso nella vita di due artiste?

Quasi tutte le pittrici d’età moderna – fin quasi all’Ottocento – erano figlie di un pittore. Antonia Doni, figlia di Paolo Uccello; Lavinia Fontana, figlia di Prospero; Catharina von Hemessen, figlia di Jan Sanders; Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio, e via dicendo. Non potendo frequentare botteghe o scuole, solo la possibilità di avere il padre come maestro, di usare i suoi repertori e modelli, permetteva alle giovani donne di apprendere le tecniche del mestiere, e poi di praticarlo. Quindi Marietta e Plautilla hanno in comune innanzitutto i padri pittori. Anche se Tintoretto era un gigante, tra i più grandi del Cinquecento, e Giovanni Bricci un artigiano, che per lo più dipingeva stemmi e carte geografiche. Entrambi però erano geni – Tintoretto per l’immenso talento, l’inventiva, l’originalità, l’inesauribile creatività; Bricci per la poliedricità: era anche matematico, musico, scienziato, attore, commediografo, poeta, canzonettista, filosofo… La libertà mentale dei padri ha sicuramente determinato il destino delle figlie, alimentato le loro ambizioni e i loro sogni. Ma Tintoretto rimase maestro e padrone di Marietta – plasmò la sua vita, e lei gliela donò interamente fino ad annullarsi in lui. Plautilla invece a 29 anni rimase orfana, e poté plasmarla da sé, divenendo altro da ciò che Bricci aveva stabilito. Marietta fu figlia per sempre, Plautilla divenne madre di se stessa.   

Da dove nasce l’idea di imbastire un romanzo sulla figura di Plautilla Bricci?

Proprio dall’incontro con la parola “architettrice” – che molti anni fa lessi, riferita a “Plautilla, di casa Bricci”, in un Abbecedario pittorico del Settecento. Pur essendo romana, come lei, non l’avevo mai sentita nominare. Plautilla Bricci non figurava in nessuna storia dell’arte né dell’architettura. Mi sono chiesta perché, quali opere avesse realizzato e se esistevano ancora. E che donna e che artista era stata. Da allora, ho iniziato a cercarla.

Oggi con la collana “Ribelli” molte bambine conoscono modelli di donne rivoluzionarie da imitare. Plautilla può essere fra queste?

A volte si è rivoluzionarie guidando un’insurrezione, salendo sulle barricate o rifiutando di scendere da un autobus, scrivendo reportage o testimoniando contro il potere – rivendicando clamorosamente diritti, scandalizzando, ribaltando le abitudini e gli stereotipi e attirando l’attenzione su di sé. A volte si è rivoluzionarie operando nell’ombra, ignorate o tollerate – accontentandosi apparentemente solo di trovare il proprio spazio e migliorare il mondo minimo intorno a sé: ma se tutte facessero come queste, le loro azioni genererebbero onde tali da cambiare il profilo del mondo intero. Mi piace pensare che Plautilla appartenga a questa seconda categoria.

Ho amato molto “La lunga attesa dell’angelo” e la figura di Marietta. Lei a quale  è più legata?

La lunga attesa dell’angelo e L’architettrice sono due libri gemelli – nell’ideazione, nella concezione e nella scrittura. Per me, inseparabili e siamesi. Amo Marietta – e la sua dolcezza appassionata ancora mi incanta. Amo Plautilla – il suo coraggio poco appariscente e la sua forza quieta. Sono personaggi speculari – e però antitetici. L’una è il compimento dell’altra.

La cornice del romanzo storico impreziosisce queste figure di donne antesignane dell’era moderna. Come riesce a ricreare delle atmosfere così dettagliate?

Abito i mondi che racconto. E che racconto perché conosco come il mio. Personaggi, luoghi, colori, suoni. Le voci e le lingue, gli odori e i fetori delle città, i mestieri, i soldi, i vestiti, le acconciature, i cibi, le strade, i mezzi di trasporto, l’educazione ricevuta, i valori inculcati, le trasgressioni, le aspirazioni, i tabù, il rapporto col corpo e con lo spirito, i libri, gli spettacoli, la musica, gli arredi, gli oggetti d’uso comune. Ogni minimo particolare – trovato in un inventario, in un testamento, nella testimonianza di un processo… – mi aiuta a immergermi nella vita quotidiana e interiore di un’epoca. E così a scriverla. Il tempo nel quale si vive non è una scenografia per me, è parte essenziale di noi.   

Oggi una donna timida, schiva, con una vita quasi monacale come Plautilla potrebbe affermarsi in questa società dell’apparenza?

Senz’altro. L’assenza e il mistero di un’identità ignota attraggono quanto presenza ed esibizione di sé.

Ha scelto fin da piccola di fare la scrittrice, non è stata mai tentata dalle arti figurative?

Ho sempre coltivato un legame con le arti “visive”, diciamo così. Alcune le ho praticate - la fotografia, il cinema, il video – di altre sono solo “amateur” (ma esiste il femminile di questo termine del linguaggio artistico?). A dipingere non ho mai pensato. L’abilità manuale mi difetta. Ero più ‘veneziana’ che ‘fiorentina’: debole in disegno, dotata coi colori. Ma mi riuscivano bene solo le silhouettes, con le forbici.

Le hanno proposto di trasporre il romanzo per il grande schermo come fu per “Un giorno perfetto”?

Forse un giorno succederà. Un romanzo è una calamita e una dinamo. Attrae idee, trasforma progetti, genera correnti che esulano dalla letteratura e la contaminano con altri mezzi espressivi. E la moltiplicazione-osmosi dei linguaggi è sempre stimolante (del resto esistita in ogni epoca), ma oggi quasi necessaria.  

 

 

Da chi lo farebbe dirigere?

Una regista. Per fortuna ormai ce ne sono di eccellenti. E anche in Italia finalmente sono stati dati loro i mezzi e la possibilità di dimostrarlo.

Si parla di una mostra per dare lustro alle opere di Plautilla. Può dire quando sarà allestita.

Presto, speriamo. Ma vedremo cosa ci concederà la pandemia che ancora ci devasta. 

Il dopo pandemia potrebbe, a suo avviso, ricreare un clima di fermento artistico per il nostro Paese come  il seicento descritto nel suo libro?

Dovrà farlo. Altrimenti per decenni conviveremo con le macerie di una distruzione che è stata fisica, economica, sociale e interiore.

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