Culture
Anni Cinquanta... "Quando Roma era un paradiso"




Di Raffaello Carabini
Secondo voi in quale periodo storico a Roma si viveva come in paradiso? Forse durante l’impero del grande Traiano, quando il territorio che controllava era esteso dalla Spagna ai Balcani, dall’Africa alla Scozia? O forse durante il Rinascimento di Papa Giulio II, mentre in città si contendevano la supremazia “gli” artisti per eccellenza Raffaello e Michelangelo? Oppure ancora ai tempi in cui divenne finalmente la capitale d’Italia, piena di fervore innovativo e di grandi speranze?

Nulla di tutto questo. Ve lo spiega Stefano Malatesta “Quando Roma era un paradiso”, come titola il suo ultimo libro da poco edito per i tipi di Skira (pgg. 144, euro 15).
Siamo negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale: la Città Eterna diventa la Hollywood sul Tevere, grazie ai costi ridotti delle ottime maestranze che attirano i produttori di “Quo Vadis?” nel 1950, capostipite del genere “peplum” e dell’invasione della celluloide a stelle e strisce, e il polo di attrazione degli artisti americani (la stessa definizione celestiale appartiene a uno di loro, Cy Twombly, che nella capitale rimase fino alla scomparsa nel 2011), paragonabile per alcune fortunate stagioni alla Parigi delle avanguardie di inizio secolo.
I ricordi di Malatesta, grande inviato di guerra prima (smise perché “le guerre tanto sono tutte uguali”) di viaggi, arte e letteratura poi, narratore pluripremiato, ci riportano, brillanti e anedottici, al clima di una città gaudente e spensierata, cialtrona e creativa, che vive il mito felliniano della Dolce Vita e insieme è proprio la Roma-Ricotta di Pier Paolo Pasolini. Un mondo dove pullulavano letterati come Gore Vidal e Tennessee Williams, pittori che si compravano per poche lire nelle tante gallerie come Mark Rothko e Willem de Kooning (pochi giorni fa un sua tela, “Interchanged”, è stata acquistata dal magnate americano Ken Griffin per 300 milioni di dollari, il più alto prezzo mai pagato in assoluto per una sola opera, pareggiando quello sborsato dai musei del Qatar per “Quando ti sposi?” di Paul Gauguin), attori come Clark Gable e Cary Grant, Ava Gardner e Lauren Bacall, perseguitata da una lesbica innamorata della sua altezza ed eleganza.
Insieme a loro sciamavano i “cinematografari” della battuta di Ennio Flaiano “sì, si fa il film, certo, certissimo, anzi probabile”, i vitelloni e i paraculi nostrani, falsari come Eric Hebborn e i fratelli Riccardi, cacciatori di falsi come Pico Cellini (scoprì che una lastra a bassorilievi esposta alla prima grande mostra di Palazzo Venezia era fasulla leccandola platealmente durante la vernice: il sapore degli acidi utilizzati per modellare più rapidamente il marmo viene alla superficie presto), il trio Lescano della pittura, Tano Festa, Franco Angeli e Mario Schifano, il poeta Valentino Zeichen, che viveva in una baracca presso Villa Borghese e usava i versi per abbordare le ragazze all’uscita delle mostre.
Di loro, e di molti altri, tutti a parole comunisti, a cominciare da Roberto Rossellini che sfrecciava insieme a Ingrid Bergman su una Ferrari nera e argento (oggi è di proprietà di un dentista di Zurigo e vale oltre 800mila dollari), il libro di Malatesta schizza una rappresentazione veloce e affettuosa, disincantata e lieve, molto piacevole, con più di un pizzico di nostalgia e la certezza che “solo ora che questa realtà è scomparsa ci rendiamo conto di quanto abbiamo perso”.